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— Consideri però, signore — disse Miles, cercando di assumere un tono persuasivo, — il vantaggio che lei avrebbe fermando le cose a questo punto. Ora ha le prove inoppugnabili di un ammutinamento, di una cospirazione. Potrebbe arrestarci tutti e farci chiudere in cella. E sarebbe una vendetta migliore, perché otterrebbe molto senza perdere nulla. Io ci rimetterei la carriera, con in più una menzione disonorevole e una condanna penale… ma sarebbe sempre preferibile alla morte. E la Sicurezza del Servizio punirebbe gli altri. Questo può riuscire ad averlo.

Le sue parole erano riuscite a far presa, Miles poté vederlo nel modo in cui Metzov inclinava la testa socchiudendo pensosamente gli occhi. Aveva assunto un'aria sospettosa, come se l'ipotesi di un comportamento più vantaggioso per lui gli fosse sgradita. Mandarlo all'inferno, a quel punto, era molto più dignitoso… Aspetta.

Scuro e massiccio nella mezzaluce dei lampioni, il generale venne a fermarsi davanti a lui e gli alitò il fiato caldo sulla faccia, dall'alto in basso. La sua voce fu un sussurro, solo per gli orecchi di Miles: — Una tipica soluzione moscia alla Vorkosigan, eh? Suo padre fu altrettanto moscio con la marmaglia di Komarr, e questo costò la vita ad alcuni di noi. Una corte marziale per il rampollo dell'ammiraglio… questo farebbe abbassare la cresta al grand'uomo, magari, con soddisfazione di molti. Eh?

Miles deglutì la saliva che avrebbe voluto sputargli in faccia. Di quelli che non conoscono la nostra storia, pensò, o che non la apprezzano affatto. Ma ahimè, c'erano anch'essi, a quanto sembrava. — Faccia bruciare quel dannato bunker prima che il fetaine esca da qualche fessura — disse con voce rauca. — E poi vedremo.

— Siete tutti in arresto! — latrò Metzov dopo una lunga pausa di silenzio, raddrizzando le spalle. — Vestitevi!

Gli uomini lo guardarono storditamente, ma con aperto sollievo. Dopo un'ultima occhiata ai fucili neuronici puntati si chinarono sui gelidi mucchietti dei loro abiti, con mani frenetiche e tremanti. Miles aveva visto arrivare quell'ordine parecchi secondi prima di sentirlo. E gli tornò a mente una definizione di suo padre: «Un'arma è uno strumento per far cambiare idea al nemico». La mente era il primo e l'ultimo campo di battaglia; tutto il resto era un caotico e inutile intermezzo.

Il luogotenente Yaski aveva approfittato della distrazione fornita dall'arrivo di Miles nudo di fronte a tutti per sparire non visto nell'edificio dell'amministrazione, facendo poi alcune frenetiche chiamate telefoniche. Come risultato, il comandante delle reclute in addestramento, l'ufficiale medico e il comandante in seconda della Base arrivarono di gran carriera, per placare i bollori di Metzov e impedire in qualche modo una conclusione drammatica. Ma per quel momento Miles, Bonn e i quindici tecnici erano già vestiti e stavano marciando a passi incerti verso il cancello ovest della Base, sotto la scorta armata del plotone e diretti al bunker contaminato.

— Dobbiamo r-ringraziare lei p-per questo? — chiese Bonn a Miles, battendo i denti. Avevano le mani e i piedi insensibili come sassi, e nel camminare al centro della strada si puntellavano l'uno contro l'altro, facendo finta di tenersi soltanto sottobraccio.

— Abbiamo avuto quello che volevamo, no? Possiamo bruciare tutto quel fetaine prima che giri il vento. Non è morto nessuno. Nessuno contaminerà il suo seme di futuro padre. Abbiamo vinto. Almeno credo. — Miles tossì seccamente, e gli parve come una pugnalata in gola.

— Non credevo che avrei visto in questa Base qualcuno più pazzo di Metzov — borbottò Bonn.

— Io non ho fatto niente di diverso da lei — protestò Miles. — Solo che, con me, la cosa ha funzionato. O quasi. Domattina tutto ci apparirà sotto un'altra luce, comunque.

— Sì, peggiore — predisse cupamente Bonn.

Miles si destò da uno scomodo pisolino sulla branda destra della cella quando sentì il sibilo della porta che scivolava di lato. Stavano riportando dentro Bonn.

Si passò una mano sulla faccia non rasata. — Che ore sono là fuori, tenente?

— L'alba. — Bonn era pallido, spettinato, e aveva l'aria di non poterne più. Si gettò a sedere sull'altra branda con un grugnito stanco, sofferente.

— Cosa sta succedendo?

— La Sicurezza del Servizio è dappertutto. Sono arrivati in volo poco fa dal continente, con un capitano che ha preso in mano la faccenda. Metzov gli sta riempiendo le orecchie di balle. Per adesso credo che si limiteranno a prendere le deposizioni.

— Il fetaine è bruciato tutto?

— Seeh. — Bonn ebbe un sogghigno aspro. — Ho dovuto stare laggiù finora, e firmare una dichiarazione di responsabilità al termine del lavoro. Il bunker ha resistito bene, però, come un forno.

— Alfiere Vorkosigan, ora vogliono lei — disse la guardia che aveva scortato Bonn. — Venga con me.

Miles si tirò in piedi e barcollò verso la porta. — Ci vediamo più tardi, tenente.

— D'accordo. Se vede qualcuno diretto verso la mensa, usi la sua influenza politica per convincerlo a portare un vassoio da queste parti.

Lui sorrise debolmente. — Ci proverò.

Miles seguì la guardia nel breve corridoio fra le celle. La prigione della Base Lazkowski non si poteva definire esattamente un carcere ad alta sicurezza; era una baracca come le altre, a parte l'assenza delle finestre, con porte interne che difficilmente venivano chiuse. Il maltempo era di solito il secondino più efficiente, per non parlare dei cinquecento chilometri di mare gelido che circondavano l'isola.

Quel mattino all'ufficio della Sicurezza della Base c'era molta attività. Ne sorvegliavano la porta due sconosciuti dall'aria dura, un tenente e un sergente con l'Occhio di Horus della Sicurezza Imperiale sul petto dell'uniforme verde. Sicurezza Imperiale, non Sicurezza del Servizio. Quella che Miles conosceva meglio, e che aveva sempre vegliato sulla sua famiglia e affiancato l'attività politica di suo padre. La loro presenza lo sollevò come quella di un vecchio amico.

L'impiegato dell'ufficio della Sicurezza della Base sembrava molto indaffarato; su tutti gli schermi della sua consolle lampeggiava qualcosa di urgente. — Alfiere Vorkosigan? Si avvicini, signore. Mi serve l'impronta del suo palmo su questo.

— Come vuole. Posso sapere cosa sto firmando?

— Solo il foglio di viaggio, signore.

— Dove, uh… — Miles gli mostrò le mani, lucide di gel. — Quale piastra?

— Quella a destra. Sì, penso che possa andar bene anche così, signore.

Con una certa difficoltà Miles appoggiò il palmo sinistro sulla piastra sensibile. La pomata trasparente in cui il medico gli aveva fatto inzuppare le mani era contro i geloni, e copriva la pelle arrossata e dolorante con uno strato ormai quasi solido. Gli dava un noioso prurito alle dita. Occorsero tre tentativi, premendo forte sulla piastra, perché il computer lo riconoscesse.

— Ora lei, signore — disse l'impiegato al tenente della Sicurezza Imperiale. L'ufficiale appoggiò di malavoglia una mano sulla piastra ed ottenne l'approvazione del computer. Osservò con una smorfia le sue dita sporche di pomata e si guardò attorno, in cerca di qualcosa per asciugarsele; poi si rassegnò a estrarre di tasca il fazzoletto e ad insozzare quello. L'impiegato ripulì nervosamente la piastra con una manica della sua uniforme, quindi premette un tasto dell'intercom.

— Sono contento di vedervi, ragazzi — disse Miles al tenente della Sicurezza Imperiale. — Avrei voluto che foste qui ieri sera.

L'ufficiale non rispose al suo sorriso. — Io ho soltanto funzioni di scorta, alfiere. Non posso discutere il suo caso.

Il generale Metzov apparve sulla porta dell'ufficio interno, con un foglio di plastica in mano e seguito da un capitano della Sicurezza del Servizio, il quale rivolse un cauto cenno del capo alla sua controparte imperiale.