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Metzov sembrava di ottimo umore. — Buongiorno, alfiere Vorkosigan. — Il suo sguardo indugiò sul tenente senza il minimo disappunto, e Miles imprecò dentro di sé: dannazione, la presenza della Sicurezza Imperiale avrebbe dovuto far tremare quel quasi-assassino nella sua sportiva uniforme da combattimento. — Sembra che nel suo caso ci sia un risvolto di cui non m'ero reso conto. Quando un Lord Vor è coinvolto in un ammutinamento, la legge prevede che sia accusato di alto tradimento.

— Cosa? — Miles si sforzò di abbassare la voce. — Tenente, la Sicurezza Imperiale non mi considera in arresto, è così?

L'ufficiale estrasse un paio di manette e provvide a collegare il polso destro di Miles a quello sinistro del sergente. «Keller» era il nome inciso sulla piastrina del graduato, che lui ribattezzò mentalmente in «Killer». Era così robusto e massiccio che alzando il braccio avrebbe potuto sollevarlo di peso dal suolo.

— Lei è in stato di detenzione, in attesa di ulteriori indagini — disse il tenente in tono formale.

— Per quanto tempo?

— Indefinitamente.

L'ufficiale si avviò alla porta, seguito dal sergente con Miles a rimorchio. — Dove mi portate? — si allarmò lui.

— Al Quartier Generale della Sicurezza Imperiale.

Vorbarr Sultana! - Devo passare a prendere le mie cose…

— Il suo appartamento è già stato liberato.

— Ma potrò tornare qui?

— Io non lo so, alfiere.

La pallida aurora di Campo Cessofreddo stava ancora spargendo una luce giallognola nella foschia orientale quando la motopulce li scaricò in fondo alla pista. La navetta sub-orbitale della Sicurezza Imperiale poggiava sulla crosta di neve come un uccello da preda atterrato in un nido di piccioni. Nera e snella, irta di armi micidiali, sembrava infrangere la barriera del suono anche da ferma. Il pilota, in cabina, stava già accendendo i motori.

Miles salì goffamente la scaletta al seguito del sergente Killer, cercando di sopportare l'umiliante disagio delle manette. Il vento aveva girato da nord ovest, intensificandosi. La temperatura avrebbe continuato ad aumentare fino a mezzogiorno, quel mattino, e l'odore umido dell'aria gli disse che prima di sera la pioggia avrebbe trasformato lo strato di neve in una morchia disgustosa. Buon Dio, era proprio l'ora di andarsene da quell'isola.

Miles inalò un'ultima boccata dell'aria esterna, poi il portello si chiuse con un sibilo da rettile. Nell'interno stagnava un silenzio ovattato che il ronzio dei motori penetrava a stento.

Se non altro era caldo.

CAPITOLO SESTO

Nella città di Vorbarr Sultana l'autunno era la più bella stagione dell'anno, e quel giorno ne costituiva un esempio. Il cielo era di un azzurro luminoso, la temperatura fresca, ideale, e neppure i fumi della periferia industriale guastavano l'odore dell'aria. I fiori autunnali stavano già appassendo, ma gli alberi importati dalla Terra indossavano i loro colori più accesi. Mentre lo facevano scendere dal furgone di fronte all'ingresso posteriore del grande edificio dove aveva sede la Sicurezza Imperiale, Miles si volse a guardare uno di quegli alberi dall'altra parte della strada, un acero terrestre con le foglie color cornalina e il tronco grigio-argento. Poi la porta si chiuse alle sue spalle. Miles tenne quell'albero davanti agli occhi della mente e cercò di memorizzarne ogni particolare, nel caso che non fosse riuscito a vederne un altro mai più.

Il tenente esibì dei documenti che accelerarono il passaggio di Miles e di Keller oltre alcune porte sorvegliate, e li precedette in un labirinto di corridoi fino agli ingressi di due ascensori tubolari. Entrarono in quello di salita, non nell'altro. Dunque non lo portavano direttamente nel blocco di celle ultrasicure sotto l'edificio. Si chiese cosa poteva significare, e subito desiderò disperatamente essere entrato nel tubo di discesa.

Furono introdotti in un reparto dei piani superiori, dove un capitano della Sicurezza aprì col telecomando la porta di un ufficio interno. Qui un uomo magro d'aspetto comune, grigio alle tempie, vestito con abiti civili, sedeva a una larga scrivania studiando qualcosa su uno schermo. Rivolse un cenno alla scorta di Miles. — Grazie, tenente, sergente. Potete andare.

Mentre Keller apriva le manette il tenente esitò. — Pensa di, uh, essere al sicuro, signore?

— Presumo di esserlo — rispose seccamente l'uomo.

Già, e io? si domandò Miles. I due militari uscirono e lui restò abbandonato lì, letteralmente, in piedi sul tappeto. Sporco, con la barba lunga, le mani incrostate di gel e addosso la tuta nera da fatica dentro cui aveva dormito… quanto, una sola notte? Niente stivali; i suoi piedi erano racchiusi nelle forme di plastica a presa rapida che gli avevano messo in infermeria dopo averli curati, e li sentiva ciancicare in una sostanza acquosa. Durante le due ore di viaggio era riuscito a sonnecchiare un po', ma non si sentiva più riposato di prima. Aveva la gola irritata, le mucose nasali farcite di aghi, e quando respirava a fondo sentiva una fitta ai polmoni.

Simon Illyan, Capo della Sicurezza Imperiale di Barrayar, incrociò le braccia e lo osservò lentamente da capo a piedi, due volte. Quel lungo sguardo diede a Miles uno sgradevole senso di déja vu.

Praticamente tutti gli abitanti di Barrayar temevano il nome di quell'uomo, anche se pochi conoscevano la sua faccia. Era una fama che Illyan coltivava accuratamente, e che si doveva in parte — ma solo in parte — al suo formidabile predecessore, il leggendario Capo della Sicurezza Negri. Quest'ultimo, e in seguito Illyan, avevano vegliato sulla vita del padre di Miles nei vent'anni della sua carriera politica, fallendo una sola volta, la notte dell'infame attacco a base di soltoxina. Per contro non c'era nessuno al mondo che Illyan temesse, con l'unica notevole eccezione della madre di Miles. Una volta lui aveva chiesto a suo padre se ciò era dovuto a un senso di colpa, nato dopo quell'attentato, e la risposta del Conte Vorkosigan era stata che no, la cosa era un effetto residuo della prima vivida impressione. Miles aveva chiamato Illyan «zio Simon» per tutta la vita, fin quando era entrato nel Servizio, e «signore» da quel giorno in poi.

Guardando la faccia di Illyan, Miles pensò che ora stava finalmente afferrando la vera differenza fra essere molto seccato ed essere esasperato.

L'uomo mise termine alla sua ispezione, scosse il capo e grugnì: — Meraviglioso. Davvero meraviglioso.

Miles si schiarì la gola. — Sono… devo sul serio considerarmi in arresto, signore?

— È ciò che determineremo con questo colloquio — sospirò Illyan, appoggiandosi allo schienale. — Sono in piedi dalle due di mattina a causa tua. Ci sono voci che corrono già dappertutto, per non parlare di quello che i notiziari hanno detto e stanno continuando a dire da tutti gli schermi. I fatti accertati cambiano ogni mezzora, come colture di bacilli. Quello che mi chiedo è: già che c'eri, non potevi trovare un metodo ancora più efficace per autodistruggerti? Cercare di assassinare l'Imperatore con un temperino durante la Parata del Compleanno, ad esempio. O avere rapporti sessuali con una capra in Piazza Grande nell'ora del passeggio elegante. — Il sarcasmo lasciò il posto a una sofferenza genuina. — Lui aveva riposto tante speranze in te. Come hai potuto tradirlo così?

Non c'era bisogno di chiedere chi fosse «lui». Il Vorkosigan.

— Io… non penso di averlo fatto, signore. Non lo so.

Una luce lampeggiò sulla consolle. Illyan ebbe una smorfia, gettò un'occhiata fosca a Miles e toccò un interruttore. La seconda porta dell'ufficio, mimetizzata nella parete a destra della scrivania, scivolò di lato, ed entrarono due uomini in uniforme verde.