— Mi sembra tutti così… irreale. — Miles si abbandonò contro i cuscini. — Io volevo solo fare il mio dovere.
Un breve sorriso sfiorò le labbra di lei, ma svanì subito. — Tesoro, te la senti di considerare un altro lavoro?
— Essere un Vor è più di un semplice lavoro.
— Sì, è una patologia. Un'ossessione brulicante di miraggi. C'è un'intera galassia fuori di qui, Miles. Ci sono altri modi di fare il tuo dovere, verso una più larga… società.
— Allora perché tu stai qui? — replicò lui.
— Ah. — Lei ebbe un sorrisetto paziente a quella stoccata. — A volte gli esseri umani hanno necessità più persuasive di un fucile alla schiena.
— A proposito di papà, credi che verrà a farmi visita?
— Mmh, no. Dovrà dare a vedere che ti tiene a distanza, per un po' di tempo. In modo di non dare l'impressione che approva il tuo ammutinamento, mentre cerca di tirarti fuori salvo dai rottami. Ha deciso di mostrarsi pubblicamente irritato con te.
— E lo è?
— No, naturalmente. Tuttavia… aveva dei progetti a lunga scadenza per te, nel suo schema di riforme socio-politiche, basati sul tuo solido successo nella carriera militare… lui ha sempre cercato di mettere anche le tue stesse sofferenze al servizio di Barrayar.
— Già. Lo so.
— Be', non preoccuparti. Senza dubbio riuscirà a escogitare il modo di tirar fuori il meglio anche da questa situazione.
Miles sospirò cupamente. — Io voglio qualcosa da fare. E voglio che mi restituiscano i vestiti.
Sua madre lo guardò con rammarico e scosse il capo.
Quella sera provò a telefonare a Ivan.
— Dove sei? — domandò il cugino, in tono sospettoso.
— Inchiodato nel limbo.
— Be', guarda di fare in modo che non inchiodino anche me, — disse bruscamente Ivan, e troncò la comunicazione.
CAPITOLO SETTIMO
Il mattino dopo Miles fu trasferito in un nuovo alloggio. Un ufficiale lo condusse un piano più in basso, abbassando ancor di più le sue speranze di rivedere la luce del sole, e gli assegnò una delle camere destinate ai testimoni che la Sicurezza proteggeva in attesa del processo. E alle persone, pensò Miles, ridotte allo stato sociale di non-persone. Possibile che quei giorni nel limbo l'avessero, per contagio, trasformato in qualcuno che tutti ormai preferivano tenere fuori dalla realtà?
— Quanto dovrò stare qui? — chiese all'ufficiale.
— Non saprei, alfiere — rispose lui, e lo lasciò solo.
La sacca da viaggio, il baule pieno di indumenti buttati lì e una scatola confezionata alla meglio lo attendevano sul pavimento della stanza. I suoi beni terreni dell'isola Kyril. Miles li passò in rassegna — sembrava esserci tutto, inclusi i libri di meteorologia — ed esaminò l'alloggio. Era un appartamentino monocamera, ammobiliato nel severo stile di vent'anni addietro, con due sedie di legno, un letto, un angolo attrezzato a cucina, due armadi di forma diversa e alcuni scaffali vuoti. Nessun oggetto o indumento abbandonato che accennasse all'esistenza di precedenti inquilini.
Dovevano esserci microspie dappertutto. Ogni superficie lucida poteva nascondere la lente di una telecamera, e i microfoni erano probabilmente sepolti nei muri. A quale stanza di controllo erano collegati? Oppure, indifferenza ancor più irritante, Illyan non aveva neppure ordinato di accenderli?
Decise di fare due passi. In fondo al corridoio c'erano una guardia e alcuni monitor per la sorveglianza, ma all'apparenza nessun altro inquilino. Miles scoprì che poteva prendere l'ascensore e aggirarsi nel resto dell'edificio, salvo che nelle zone per cui occorreva un lasciapassare; ma gli uomini di guardia agli ingressi, informati della sua identità, gli vietarono con cortese fermezza di uscire in strada. Lui rifletté che avrebbe sempre potuto calarsi giù da qualche finestra… per farsi sparare, magari, e rovinare così la carriera di una povera guardia.
Un ufficiale della Sicurezza lo trovò che vagabondava all'ultimo piano, lo ricondusse nel suo alloggio, gli diede una manciata di banconote e di spiccioli per il bar-ristorante dell'edificio e alluse con molta enfasi che si sarebbe fatto apprezzare di più se fosse rimasto in camera fra un pasto e l'altro. Miles lo ringraziò docilmente e poi contò il denaro, cercando di dedurne la durata della sua permanenza lì. Avrebbe potuto bastare per un centinaio di pasti, se avesse lasciato laute mance. Il groppo di saliva che deglutì fu amaro come il veleno.
Tirò fuori il contenuto della sacca e del baule, mandò tutti gli indumenti già usati alla lavanderia sonica per eliminare l'odore umido di Campo Cessofreddo, appese le giacche, lucidò gli stivali, sistemò i suoi pochi oggetti sugli scaffali, fece la doccia e poi indossò un'uniforme verde pulita.
Un'ora era andata. Quante altre ne sarebbero trascorse?
Cercò di leggere, ma presto gli passò la voglia e finì per trovarsi seduto sulla sedia meno scomoda, con gli occhi chiusi e i piedi sul tavolo, fingendo che quella stanza silenziosa fosse una cabina a bordo di un'astronave. Diretta verso l'immensità.
Due sere dopo era seduto sulla stessa sedia, occupato soltanto a digerire una cena un po' troppo pesante, quando il cicalino della porta emise un ronzio.
Sorpreso, Miles si alzò per andare ad aprire di persona. Difficile che fosse un plotone d'esecuzione, rifletté, anche se non si poteva mai dire.
Ma per un attimo il suo ottimismo s'incrinò di brutto alla vista dei due ufficiali della Sicurezza Imperiale che si trovò di fronte, un capitano e un maggiore, rigidi e impettiti. — Mi scusi, alfiere Vorkosigan — borbottò il capitano entrando senza complimenti, e cominciò a sondare mobili e pareti con uno scandaglio elettronico. Miles sbatté le palpebre. Poi vide la persona che era dietro di loro in corridoio, con una scatola in mano, e gli sfuggì un — Oh! — di comprensione. A un cenno del capitano alzò le braccia con ubbidienza e si lasciò scandagliare anche i vestiti.
— Pulito, signore — riferì l'ufficiale al collega, e Miles poté stare tranquillo che era così. Quegli uomini non avrebbero mai, mai trascurato un angoletto, neppure nel cuore del Quartier Generale della Sicurezza Imperiale.
— Grazie. Lasciateci soli, per favore. Potete aspettare qui fuori — disse l'altra persona. I due ufficiali annuirono e si disposero in atteggiamento marziale di fronte all'alloggio.
Dato che entrambi indossavano l'uniforme, Miles salutò militarmente il suo visitatore, che pure non portava alcun grado o mostrina sul petto. Era giovane, di altezza media, con corti capelli neri e occhi di un verde intenso. Un sorriso un po' amaro piegò gli angoli di una bocca che non aveva avuto molte occasioni di ridere.
— Altezza — disse formalmente Miles.
L'Imperatore Gregor Vorbarra fece un cenno col capo e lui chiuse la porta, con uno sguardo di scusa ai due della Sicurezza. Soltanto allora il giovanotto snello parve rilassarsi. — Ehilà, Miles.
— Ehilà a te. Uh… — Miles gli indicò la stanza con un gesto circolare. — Benvenuto nella mia modesta cella. Le nostre parole stanno passando alla storia?
— Ho chiesto a Illyan di spegnere gli apparati d'ascolto, ma non sarei sorpreso se facesse a modo suo. Per il mio bene, ovviamente. — Con un sogghigno Gregor cambiò mano alla scatola, dal cui interno provenne un lieve tintinnio, e seguì Miles. Si lasciò cadere sulla sedia che lui aveva appena scaldato, alzò una gamba sulla spalliera della sedia accanto e sospirò stancamente, come se quella che lasciava uscire fosse l'ultima aria del mondo. Gli porse la scatola. — Un po' di anestesia per le tue pene.