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— D’accordo. Recuperiamo Bernard e Shen, e congeliamo questa frotta di Scorpioni.

Venti minuti più tardi tutti i ragazzi in sala erano congelati, salvo Ender, Bernard, Shen e Alai. I quattro si appollaiarono su una ringhiera e risero dello spettacolo che si presentava loro, finché nel locale non entrò Dap.

— Vedo che avete appreso l’uso del vostro equipaggiamento — disse. Poi azionò un piccolo apparecchio che aveva in mano. I ragazzi che fluttuavano qua e là cominciarono a spostarsi lentamente verso la parete in cui si aprivano gli ingressi. Dap si mosse fra i ragazzi congelati, toccandoli e rendendo di nuovo flessibili le loro tute. Ognuno protestava impermalito che Bernard e Alai avevano agito scorrettamente, colpendoli quando loro non erano pronti.

— E perché non eravate pronti? — chiese Dap. — Vi siete messi le tute nello stesso momento. Ma voi avete perso tempo svolazzando attorno come polli senza testa. Piantatela di frignare e cominciamo a lavorare sul serio.

Ender notò che davano per scontato che i capi di quella battaglia fossero stati Bernard e Alai. Meglio così, pensò. Bernard sapeva che lui e Alai avevano imparato insieme l’uso delle pistole, e che dunque erano amici, perciò poteva dedurne che lui s’era unito al suo gruppo. Ma le cose stavano diversamente: Ender s’era aggregato a un nuovo gruppo. Quello di Alai. Un gruppo a cui anche Bernard s’era unito.

La cosa non risultò evidente a tutti; Bernard continuava a fare il capoccia e a dare ordini a questo e a quello. Ma Alai adesso aveva mano in ogni questione della camerata, e quando Bernard eccedeva era lui che interveniva per placarlo. Quando fu loro chiesto di scegliere il nome del capogruppo, la scelta fu quasi unanime in favore di Alai. Bernard brontolò scontrosamente per qualche giorno, poi si adattò, e i ragazzi trovarono una certa unità in quel nuovo schema. Il gruppo non era più suddiviso in fazione interna di Bernard, neutrali, e fuoricasta tipo Ender. Alai era il ponte fra di loro.

Ender sedeva sulla branda con il banco elettronico girato sulle ginocchia. I ragazzi stavano studiando ognuno per conto proprio, e lui aveva chiamato sullo schermo del desco una Partita Libera. Era un gioco di tipo strano e bislacco, nel quale il computer della Scuola inseriva a getto continuo elementi nuovi creando una sorta di labirinto che il giocatore doveva esplorare. Era possibile restare alle prese con situazioni a piacere, almeno per un poco, ma bastava lasciarle scorrere perché qualcos’altro prendesse il loro posto.

Talvolta erano cose divertenti, talaltra eccitanti, e lui era costretto a stare sempre sul chi vive per non essere ucciso. Era già morto una gran quantità di volte, ma la cosa era normale, faceva parte del gioco: capitava d’essere uccisi ripetutamente, prima di scovare il modo di procedere oltre gli ostacoli.

La sua figura sullo schermo aveva cominciato in forma di ragazzino. Nei tentativi seguenti lo aveva trasformato in un orsacchiotto. Adesso era un grosso topo, con mani lunghe e delicate. Ender fece correre la figura sotto un gran mucchio di mobili sfasciati. L’aveva fatta competere a lungo contro un gatto, ma questo aveva finito per annoiarlo: troppo facile eluderlo, ora che conosceva tutti i segreti di quei mobili.

Non attraverso la tana del topo stavolta, disse a se stesso. Non ne posso più del Gigante. È una partita insensata, e non posso vincere mai. Qualunque sia la mia scelta, è sbagliata.

Ma andò lo stesso fuori attraverso la tana del topo, e oltrepassò il ponticello nel giardino fiorito. Evitò i becchi dei paperi e i tuffi delle api-kamikaze; aveva provato a gareggiare con loro ma era stato tutto troppo facile, inoltre se superava il tempo limite concesso contro i paperi si ritrovava trasformato in un pesce, cosa che non gli piaceva. Fare il pesce gli ricordava troppo le occasioni in cui finiva congelato, nella sala di battaglia, rigido da capo a piedi, senza altro da fare che attendere la fine dell’esercitazione perché Dap lo rimettesse in movimento. Così, come al solito, scelse di proseguire e si diresse su per le colline tondeggianti.

Cominciò il tratto paludoso. Dapprima lui era affondato interminabilmente, trascinato indietro da rigurgiti di fango sanguigno che essudava da sotto ogni roccia. Adesso però s’era fatto svelto a correre su per i tratti liberi, evitando il fango e zigzagando verso l’alto.

Come sempre, quindi, la salita terminò fra i macigni. L’altipiano si aprì libero dinnanzi a lui, ma al posto del terreno c’era una distesa di pane bianco, tenerissimo, la cui pasta s’innalzava in fragili croste che si spezzavano e cadevano. La sua figura ci sprofondava come in una spugna e dovette rallentare l’andatura. E quando saltò giù dall’enorme pezzo di pane si trovò in piedi su una tavola. Colossali fette di pane dietro di lui, colossali cubetti di burro a destra e a sinistra. E di fronte il Gigante in persona, che col mento poggiato sulle mano lo scrutava. La figura di Ender era poco più alta del suo naso.

— Credo che ti staccherò la testa con un morso — disse il Gigante, come al solito.

Questa volta, invece di correre via o di saltare dietro il burro, Ender mosse la figura verso la faccia del Gigante e lo colpì al mento con un calcio.

Il Gigante sporse la lingua, che come il rosso tentacolo d’una piovra sbatté al suolo Ender.

— Che ne dici di giocare agli indovinelli? — chiese il Gigante. Dunque quella variante iniziale non faceva alcuna differenza: l’avversario insisteva nella sua immancabile proposta. Stupido computer. Milioni di possibili gare nella sua memoria, e il Gigante vuole solo giocare a questo stupido gioco.

Come ogni volta, il Gigante piazzò due larghe coppe di vetro alte quanto il ginocchio di Ender fra loro, sul piano del tavolo. E come ogni volta esse erano colme di liquidi diversi. Il computer era abbastanza intelligente da far sì che quei liquidi non fossero mai gli stessi, per quante partite potesse giocare. Stavolta uno conteneva una spessa crema dall’aspetto semiliquido. L’altro gorgogliava e fumava.

— Uno è velenoso e l’altro no — disse il Gigante. — Indovina il drink giusto e io ti porterò nella Terra delle Meraviglie.

Indovinare significa immergere la faccia in uno dei drink e assaggiarlo. Lui non l’aveva azzeccata mai. Talvolta la sua testa si dissolveva. Talvolta prendeva fuoco. Talvolta ci cadeva dentro e affogava. Talvolta schizzava indietro, diventava verde e andava in pezzi. La fine era sempre orribile, e il Gigante rideva sempre.

Ender sapeva che qualunque fosse stata la sua scelta sarebbe morto. Il gioco era truccato. Dopo la prima morte, la sua figura sarebbe riapparsa sul tavolo del Gigante per giocare ancora. Dopo la seconda morte sarebbe stata riportata indietro sul pendio fangoso. Poi sul ponticello del giardino. Poi nella tana del topo. E poi, se fosse tornato fin dinnanzi al Gigante per giocare e perdere ancora, il suo banco si sarebbe spento. «Fine della Partita Libera», questa scritta avrebbe lampeggiato sullo schermo, e a Ender non sarebbe rimasto che abbandonarsi indietro sulla branda, tremante ed esausto, in attesa che il sonno scendesse su di lui. Il gioco era truccato, però il Gigante continuava a parlare della Terra delle Meraviglie, qualche stupidissima e infantile Fantasyland dove probabilmente c’era una stupidissima Mamma Oca, o i Tre Porcellini, o Peter Pan, o comunque nulla che valesse la fatica di posarvi gli occhi sopra. Eppure lui doveva scoprire il modo di battere il Gigante e arrivare là.

Si chinò a bere la crema liquida. Immediatamente cominciò a gonfiarsi come un pallone. Scoppiò, il Gigante rise. Era morto un’altra volta.

Giocò la seconda partita, e stavolta il liquido divenne solido come il cemento mentre lo beveva, imprigionandogli la faccia. Il Gigante lo spaccò in due lungo la spina dorsale, lo aprì come un pesce e cominciò a divorarlo, staccandogli a morsi gambe e braccia.