Lui scosse il capo. Vedersi dare una promozione era la cosa più assurda che mai avrebbe potuto pensare. Nessuno veniva promosso prima di aver compiuto otto anni. Ender non ne aveva ancora sette. E di solito i novellini erano trasferiti in gruppi alle orde, molte delle quali aumentavano così gli effettivi contemporaneamente. Ma non c’erano ordini di trasferimento su nessuno degli altri letti.
Proprio quando le cose si stavano mettendo bene. Proprio quando Bernard cominciava a diventare sopportabile per tutti, perfino per lui. Proprio quando Alai si stava rivelando un vero amico. Proprio quando la sua vita diventava finalmente facile da vivere.
Ender fece scostare Alai dalla cuccetta, ma non si mise a sedere al suo posto.
— L’orda delle Salamandre è in sala di battaglia, comunque — disse Alai.
Ender era così infuriato per quel trasferimento così inopportuno che gli stavano salendo le lacrime agli occhi. Non devi piangere, si disse.
Alai notò le sue palpebre inumidite, ma ebbe il tatto di ignorarle. — Sono delle teste di cavolo, Ender. Arrivano perfino al punto di non lasciarti portare via le tue cose.
Lui riuscì a trovare un sorriso che scacciò le lacrime. — Dici che devo lasciare qui la tuta e andarmene nudo come un verme?
Anche Alai rise.
D’impulso Ender lo abbracciò strettamente, quasi come se fosse Valentine. E l’improvviso desiderio di rivederla gli fece desiderare d’essere a casa. — Non voglio andarmene — disse.
Alai gli restituì l’abbraccio. — Io li capisco, Ender. Tu sei il migliore di noi. Forse hanno fretta d’insegnarti tutto il possibile.
— Non so cosa vogliano insegnarmi — mormorò Ender. — So soltanto che volevo sapere cosa significa avere un amico.
Alai annuì gravemente. — Amici una volta, amici per sempre — dichiarò. Poi sorrise. — Vai a fare a fettine gli Scorpioni, d’accordo?
— Sicuro. — Ender gli restituì il sorriso.
Ad un tratto Alai lo baciò su una guancia, e mormorò: — Salaam! — Poi, rosso in volto, si volse e tornò alla sua cuccetta in fondo al locale. Ender si disse che quel bacio e quella parola dovevano essere qualcosa di proibito. Una delle religioni soppresse, forse. Oppure la parola doveva contenere qualche segreto e potente significato per Alai. Ma qualunque cosa avesse inteso, Ender sapeva che l’amico la riteneva sacra e che gli aveva rivelato il suo animo, così come gli era accaduto una sera con sua madre, prima che gli mettessero il monitor nella nuca, quando credendolo addormentato s’era seduta sul bordo del suo letto e gli aveva poggiato le mani sulla testa, pregando sottovoce per lui. Ender non ne aveva mai fatto parola con nessuno, neppure con lei, ma ne aveva conservato un ricordo profumato di mistero sacro, la consapevolezza che sua madre lo amava così profondamente da non osare dirlo se non ai suoi occhi addormentati. Questo era ciò che Alai gli aveva dato; un dono così sacro che neppure a lui era concesso comprenderne il significato.
Dopo una cosa simile null’altro poteva essere detto. Alai si gettò sulla cuccetta e volse su di lui uno sguardo pacato. I loro occhi s’incontrarono come quelli di due fratelli. Poi Ender uscì.
Nessun sentiero verde verde marrone lo attendeva in quella zona della Scuola; avrebbe dovuto cercare i colori in uno dei locali più frequentati. Ma gli altri sarebbero usciti di mensa da lì a pochi minuti, e lui non se la sentiva d’incontrarli. La sala dei giochi invece doveva essere praticamente deserta.
Nell’umore in cui era, nessun gioco gli parve più molto attraente; così andò allo schermo di una delle scrivanie pubbliche in fondo al locale e lo accese, chiedendo la sua partita personale. Subito fece correre la sua figura fino alla Terra delle Meraviglie. Adesso, ogni volta che giungeva lì, il Gigante era un cadavere. Per scendere dal tavolo dovette saltare dapprima su una gamba dell’enorme sedia rovesciata, quindi si calò cautamente al suolo. Per un po’ c’erano stati dei topi, occupati a rosicchiare il corpo del Gigante, ma Ender ne aveva ucciso uno con uno spillo tolto dall’abito sgualcito del colosso, e da allora lo avevano lasciato in pace.
Il corpo del Gigante era pressoché ai limiti della decomposizione. Ciò che poteva esser mangiato via dagli animali necrofori era consumato; i vermi avevano compiuto il loro lavoro negli organi interni; adesso non restava che una mummia disseccata dalle orbite vuote, coi denti scoperti in un sogghigno scheletrico e le dita come artigli ricurvi. Ender ripensò alla ferocia con cui gli aveva aggredito l’occhio quando era vivo, malizioso e intelligente. Irritato e frustrato come si sentiva, desiderò poterlo di nuovo attaccare e uccidere. Ma ormai il Gigante era divenuto parte di quel panorama, e odiarlo non aveva più alcun senso.
Ender era già stato oltre il ponte al castello della Regina di Cuori, dove c’erano da giocare partite abbastanza divertenti, ma in quel momento nessuna di esse lo attirava. Aggirò il cadavere del Gigante e seguì il ruscello controcorrente, fino al punto in cui emergeva dalla foresta. Là c’era un tipico parco giochi, con i toboga e le altalene, la pista di pattinaggio e alcune giostre, e dozzine di bambini stavano cicalando e ridendo. Ender si avvicinò e s’accorse che la sua figura aveva perso certe caratteristiche adulte trasformandosi in quella di un bambino. Anzi era ancor più piccola e giovane degli altri ragazzetti.
Si mise in fila per il toboga. Gli altri bambini lo ignorarono. Salì la scaletta fino in cima e attese che quello davanti a lui si fosse gettato giù lungo la liscia spirale che terminava al suolo. Poi sedette e si spinse in avanti.
Non stava scivolando neppure da un istante quando si trovò ad atterrare nella sabbia sotto l’incastellatura. Il toboga non lo voleva su di sé.
Anche le altalene rifiutavano la sua presenza. Poteva sedersi e cominciare a muoversi, ma appena l’oscillazione aumentava il sedile diventava incorporeo e lui cadeva. Il ponticello sullo stagno lo lasciò precipitare in acqua mentre attraversava. Provò una delle giostre, che partì normalmente; quando però essa cominciò a girare forte e Ender cercò di aggrapparsi le maniglie si smaterializzarono e la forza centrifuga lo scaraventò al suolo.
E gli altri bambini: le loro risate erano rauche, offensive. Fecero circolo intorno a lui, gli rivolsero gesti derisori e prima di tornare ai loro giochi lo insultarono beffardamente.
Ender provò l’impulso di colpirli, di afferrarli e gettarli nel ruscello. Invece si inoltrò nella foresta. Trovò un sentiero, che poco dopo si allargò in un’antica strada lastricata in pietra, aggredita dalle erbacce ma ancora praticabile. Su ambo i lati c’erano possibili buone partite da giocare, ma Ender non s’impegnò in alcuna di esse. Voleva vedere dove portava la strada.
Ciò che si trovò davanti fu una radura con un vecchio pozzo al centro, e su di esso un cartello che diceva: «Dissetati, viandante». Ender andò a guardare nel pozzo. In quell’istante udì un ringhio. Dalla foresta erano sbucati una dozzina di lupi avidi di sangue, ed avevano volti umani. Ender li riconobbe: erano i bambini che l’avevano deriso. Ma adesso avevano zanne fatte per sbranare, e senza un’arma con cui opporsi Ender fu subito sopraffatto e divorato.
La sua figura successiva apparve, come di regola, nello stesso luogo, e fu di nuovo fatta a pezzi dai lupi, benché Ender avesse tentato di gettarsi nel pozzo.
Nella partita che seguì venne riportato indietro nel parco giochi. I bambini stavano ridendo intorno a lui. Ridete pure finché volete, pensò Ender. Ora so chi siete. Agguantò una di loro. Lei lo seguì, irosamente, fino al toboga e si lasciò spingere in cima alla scaletta. Poi Ender si gettò giù con lei. Come in precedenza si ritrovò di colpo al suolo, ma anche la bambina era precipitata insieme a lui e al momento dell’impatto s’era trasformata in un lupo, che adesso giaceva stordito o morto sulla sabbia.