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Afferrò per un polso un ragazzo che gli aveva appena mollato una sventola e lo tirò con forza verso di sé. Lo strattone servì a farlo roteare fuori portata dagli avversari in avvicinamento, ma lo allontanò ancor di più dalla porta. — State dove siete! — gridò ai compagni, che si preparavano ad accorrere in sua difesa. — Non muovetevi da lì!

Qualcuno lo afferrò per un piede. La stretta gli servì da leva, e riuscì a piazzare sull’orecchio destro del ragazzo un pedatone che gli strappò un grido. Se l’avversario l’avesse lasciato andare per tempo il colpo gli avrebbe causato assai meno danni. Invece volle essere testardo: il calcio gli lacerò l’orecchio facendone sprizzare gocce di sangue, e soltanto il dolore lo costrinse infine a mollare la presa.

Lo sto facendo di nuovo, pensò Ender. Faccio del male agli altri, soltanto per salvare me stesso. Perché non mi lasciano in pace? Perché devono costringermi a questo?

Altri tre ragazzi stavano convergendo su di lui, e stavolta agivano di concerto. La loro intezione era di ancorarsi a lui e di colpirlo tenendolo fermo. Ruotò su se stesso in modo da consegnare i suoi piedi a due di loro, e avere le mani libere per affrontare il terzo.

Come aveva previsto, i due avversari gli agguantarono subito le gambe. Ender prese l’altro per le spalle della tuta, lo trasse a sé e lo colpì con una testata in piena faccia. Ancora un gemito, ancora gocce di sangue che fluttuavano attorno. Gli altri due lo stavano percuotendo sui fianchi e cercavano di girarlo. Ender sbatté loro addosso il ragazzo che perdeva sangue dal naso, scalciò più volte e le sue gambe furono libere. Poi fu solo questione di usare lo stesso avversario come punto di appoggio, e spingendolo via si proiettò in direzione della porta. La manovra non fu pulita e veloce come quelle eseguite in allenamento, e lo fece roteare in modo antiestetico, ma poco importava. Nessuno lo stava inseguendo.

Alla porta si trovò in mezzo ai compagni. Dieci mani lo presero e lo dirottarono nel corridoio. I ragazzi ridevano sollevati e gli davano grandi manate sulle spalle. — Dannato bastardo! — lo complimentarono. — Razza di volpone! In gamba! Sei andato forte, amico!

— Be’, basta con l’addestramento, per oggi — disse Ender.

— Domani quelli torneranno — pronosticò Shen.

— Non otterranno quel che sperano — disse Ender. — Se verranno senza tute, finirà come oggi. Se avranno le tute da battaglia, li batteremo sulla velocità.

— Però — disse Alai, — scommetto che gli insegnanti non lo permetteranno.

Ender tornò a ripensare alle parole di Dink, e si disse che forse Alai aveva visto giusto.

— Ehi, Ender! — gli gridò dietro uno dei ragazzi anziani, mentre lui se ne andava. — Tu non sei nessuno, pivello. Sei zero!

— È il mio ex comandante, Bonzo — sospirò Ender. — Sembra che io non gli sia simpatico.

Quella sera Ender chiese sullo schermo del suo banco il rapporto dell’infermeria. Quattro ragazzi s’erano presentati per ricevere cure. Uno con una costola incrinata, uno con un testicolo dolorante, uno con l’orecchio destro lacerato, e uno col naso rotto e un incisivo spezzato. La causa riferita al medico era la stessa nei quattro casi:

COLLISIONE ACCIDENTALE IN GRAVITÀ ZERO

Se gli insegnanti avallavano quel palese falso nelle registrazioni ufficiali, era ovvio che non intendevano prendere provvedimenti contro chi aveva partecipato alla zuffa in sala di battaglia. Possibile che non facciano niente? Non gli importa quel che succede in questa scuola?

Visto che era tornato in camerata prima del solito, chiamò la partita libera sul suo banco. Da un po’ di tempo non la giocava più, e forse per quel motivo la sua figura non cominciò nel posto in cui l’aveva lasciata. La vide prender forma presso il corpo del Gigante. Soltanto che adesso era a stento identificabile come un corpo, a meno che uno non indugiasse a esaminarlo. La massa mummificata s’era trasformata in una collinetta su cui crescevano erbacce e rampicanti. Il cranio era invece ancora riconoscibile per i tratti di osso nudo e bianco, simile a roccia gessosa levigata dalla pioggia.

Ender proseguì, aspettandosi di dover eliminare i bambini licantropi, ma giunto al parco giochi ebbe la sorpresa di trovarlo vuoto. Forse una volta uccisi restavano morti per sempre. Questo lo rese un po’ triste.

Attraversò la foresta, scese nel pozzo, uscì dalla caverna piena di gemme e si trovò sul cornicione che sovrastava il meraviglioso panorama campestre. Di nuovo si gettò nel vuoto, la nuvoletta lo prese al volo e lo trasportò nella stanza in cima alla torre del castello.

Il serpente cominciò a sciogliere le sue spire dinnanzi al focolare, ma stavolta Ender non esitò: balzò sulla testa del rettile e la schiacciò sotto i piedi. La bestiaccia si contorse furiosamente, costringendolo a calpestarla a lungo, ma finalmente giacque immobile. Ender sollevò il serpente e lo scosse per controllare che non potesse tornare in vita. Poi, trascinandoselo dietro, cominciò a cercare se c’era una via d’uscita.

Trovò invece uno specchio. E in esso vide comparire una faccia che riconobbe all’istante. Era Peter. Sul suo mento ruscellavano gocce di sangue, e da un angolo della bocca gli sporgeva la coda di un serpente.

Con un grido di spavento Ender respinse il banco. I pochi ragazzi che c’erano in camerata si volsero di scatto, allarmati, e lui dovette scusarsi spiegando che non era successo nulla. Ma quando trasse di nuovo il banco a sé gli tremavano le mani. La sua figura era sempre nella stanza, davanti allo specchio. La fece voltare e cercò di usare un mobile per rompere il cristallo, ma non riuscì a spostarlo. Inutile fu anche il tentativo di staccare lo specchio dal muro. Alla fine Ender vi scaraventò contro il serpente. Lo specchio andò in frantumi e dietro di esso comparve un foro sbrecciato nei mattoni. Dall’apertura guizzarono fuori dozzine di serpentelli che si gettarono sulla figura di Ender, mordendola dappertutto. Strappandosi i rettili di dosso con movimenti frenetici la figura barcollò, cadde morta e fu ricoperta da un viluppo di forme verdi che la nascosero.

Lo schermo diventò nero, e apparve una scritta:

GIOCHI ANCORA?

Ender spense il banco e lo mise nell’armadietto.

Il giorno dopo parecchi comandanti vennero a stringere la mano a Ender, o mandarono uno dei loro soldati a dirgli che erano solidali con lui. Alcuni dichiararono che i suoi allenamenti extra una buona idea e che dovevano continuare. Per esser sicuri che nessuno avrebbe tentato soprusi si dissero disposti ad affidargli quei loro soldati che avevano bisogno di migliorare. — E i miei sono grossi come quegli Scorpioni che vi hanno attaccato l’altra sera — disse uno di loro. — Adesso dovranno pensarci due volte.

Quella sera invece di dodici ragazzi ce n’erano quarantacinque, più dei componenti di un’orda. E sia che fosse per la presenza di quelli che avevano affiancato Ender, sia che la sera prima ne avessero avuto abbastanza, nessuno dei loro provocatori si fece vivo.

Ender non chiamò più sul suo banco la partita libera. Ma essa continuava a svolgersi nei suoi sogni, mista al ricordo di come aveva ucciso il Gigante, alla ferocia con cui aveva schiacciato il serpente e affogato i licantropi, ai calci che aveva dato a Stilson, all’indifferenza con cui aveva rotto un braccio a Bernard. E terminava col volto di Peter che lo fissava orribilmente dallo specchio. Questo gioco sa troppe cose di me. Questo gioco dice delle sporche bugie. Io non sono Peter. Io non ho l’istinto omicida nel mio cuore.

Ma restava la paura più raggelante, il sospetto di essere un killer, e perfino migliore dello stesso Peter. Il pensiero che proprio quella sua dote compiacesse maggiormente gli insegnanti. È di killer che hanno bisogno contro gli Scorpioni. Gente che può prendere il nemico a calci nei denti e far schizzare il suo sangue per tutto lo spazio.