Valentine perse ogni appetito e si alzò da tavola. Dopo qualche minuto Peter la raggiunse, in soggiorno.
— E va bene, non ti piace mentire a Papà — le disse. — E con questo? Tu non stai mentendo a lui. Lui non sa che Demostene sei tu, e Demostene non sta scrivendo ciò che tu pensi in realtà. Queste due menzogne si cancellano l’un l’altra, perciò.
— Questo è proprio il tipo di ragionamento che fa di Locke un vero asino. — Ma ciò che la angosciava non era il fatto di mentirgli quanto il vedere che Papà era d’accordo con Demostene. Fin’allora aveva creduto che soltanto gli sciocchi potessero condividere le sue idee.
Pochi giorni dopo Locke venne richiesto da un grosso videogiornale del New England, col preciso incarico di fornire punti di vista in contrasto con la colonna settimanale di Demostene. — Niente male, per due ragazzini ancora più o meno impuberi, eh? — commentò Peter.
— Ci corre un bel pezzo di strada fra scrivere un articolo e governare il mondo — gli rammentò Valentine. — Ed è una strada così lunga che nessuno è mai riuscito a farla.
— C’è chi l’ha fatta. Moralmente, intendo, non in senso politico. E nella mia prima colonna mi accingerò a fare a pezzi Demostene.
— Be’, Demostene non si è mai neppure accorto dell’esistenza di Locke.
— Per ora.
Con le loro identità fittizie adesso supportate dai computer della videostampa, non ebbero più bisogno del codice d’accesso del padre salvo che per far uso di altre identità provvisorie. Mamma li rimproverò che trascorrevano troppo tempo attaccati agli schermi. — Sole di vetro e aria di fessura, mena presto alla sepoltura — ricordò a Peter. — Dovresti andare un po’ a svagarti, ogni tanto.
Lui esibì una rassegnata mestizia. — Se credi che io possa frequentare quegli sciocchi della mia età, e smettere di istruirmi, forse stavolta ce la farò senza sentirmi impazzire. Posso provarci.
— No, no — disse Mamma. — Non voglio che tu smetta d’istruirti. Soltanto… abbi cura di te, ecco tutto.
— Io ho molta cura di me, Mamma.
Nulla era diverso, nulla era cambiato in quell’ultimo anno. Ender se lo ripeteva spesso, e tuttavia gli sembrava che ogni cosa avesse perduto sapore. Era sempre in vetta alla classifica dell’efficienza individuale, e adesso nessuno dubitava che lo meritasse. A nove anni di età era capobranco nell’orda delle Fenici, con Petra Arkanian come comandante. Dirigeva ancora gli allenamenti extra della sera, e ad essi partecipava ora un gruppo scelto di soldati nominati dai loro comandanti, benché qualunque novellino fosse il benvenuto fra essi. Anche Alai era capobranco, in un’altra orda, e continuava ad essere per lui un buon amico.
Shen non aveva il grado di capobranco, ma questo non era un ostacolo fra loro. Dink Meeker aveva finalmente accettato un comando ed era succeduto a Rose de Nose alla guida dell’orda dei Topi. Tutto sta andando bene, più che bene. Non potrei chiedere qualcosa di meglio…
Allora perché detesto la mia vita?
Addestrarsi con l’orda e combattere in sala di battaglia era divertente. Gli dava soddisfazione istruire i ragazzi del suo branco, e loro lo seguivano lealmente. Aveva la stima di tutti, e negli allenamenti serali lo ascoltavano quasi con deferenza. I comandanti studiavano le sue tecniche. Soldati di altre orde, a mensa, si avvicinavano al suo tavolo e chiedevano il permesso di sedersi solo per ascoltarlo parlare. Perfino gli insegnanti erano rispettosi con lui.
Si vedeva così dannatamente rispettato che avrebbe voluto urlare.
Osservava i ragazzini appena arruolati nelle varie orde, ancora freschi dei loro ricordi di casa; guardava i loro giochi, il modo in cui si facevano beffe dei comandanti quando essi non erano nelle vicinanze. Vedeva il cameratismo dei ragazzi ormai legati da anni di vita in comune lì alla Scuola di Guerra, che rivangavano battaglie ormai vecchie e nomi di soldati e comandanti da tempo giunti al termine del corso.
Ma con i suoi vecchi amici non c’erano giochi di quel genere, né risate, né tempo da dedicare ai ricordi. Soltanto lavoro. Soltanto tattica e strategia, ed eccitazione durante le battaglie, ma niente al di là di questo. E una sera, al termine degli allenamenti, la cosa lo colpì più di quel che aveva creduto. Stava discutendo con Alai certi particolari della manovra negli spazi aperti, quando Shen si avvicinò ad ascoltare. Per qualche minuto il ragazzo non disse nulla, poi una frase lo fece ridacchiare; d’improvviso afferrò Alai per le spalle e gridò: — Quattro-Tre-Nova! — Anche Alai scoppiò a ridere, e per un poco Ender li ascoltò rammentarsi l’un l’altro la battaglia dove quella manovra era stata fin troppo reale, quando avevano aggirato i ragazzi più anziani e poi…
D’un tratto i due ricordarono che lì c’era anche lui. — Scusa, Ender — disse Shen.
Scusa. Per che cosa? Per essere amici? — Quel giorno c’ero anch’io, lo sai — disse Ender.
E i due gli chiesero ancora scusa. Di nuovo al lavoro. Di nuovo al rispetto. Così Ender capì che ai suoi compagni non era venuto in mente di includerlo nelle loro risate, nella loro amicizia.
E come avrebbero potuto pensare che io ne ero parte? Ho forse riso? Ho rivangato episodi? Me ne sono rimasto lì a guardare, come un insegnante della Scuola. È già a questo modo che mi vedono. Insegnante. Soldato leggendario. Non come uno di loro. Non come uno che hai abbracciato per sussurrargli «salaam» all’orecchio. Questo è durato finché Ender sembrava ancora una vittima, ancora un bambino vulnerabile.
Adesso capeggiava una classifica, era un esperto. Ed era completamente, inevitabilmente solo.
Compiangi pure te stesso, Ender. Quella sera, disteso sulla cuccetta, lasciò che le sue dita scrivessero sul banco: POVERO ENDER. Poi rise di quelle parole e le cancellò. Non c’è un ragazzo o una ragazza qui a scuola che non vorrebbero essere al mio posto.
Chiamò sullo schermo la partita mentale. Come aveva fatto altre volte s’incamminò attraverso il villaggio che gli gnomi avevano edificato entro il collinoso scheletro del Gigante. Era facile costruire strani muri distorti seguendo la curvatura delle costole, aprendo finestre nei varchi fra esse. Il Torace era stato suddiviso in piccole abitazioni fissate a quelle travature ossee. L’anfiteatro per le riunioni era scavato a gradini nella coppa delle ossa iliache, e fra le gambe del Gigante c’erano cortili ed orti. Ender non aveva mai saputo a cosa mirassero gli gnomi con le loro attività, ma nel vederlo passare lungo il villaggio non lo avevano mai aggredito e in cambio lui li lasciava in pace.
Scavalcò l’osso pubico all’estremità dell’anfiteatro e si avviò fra gli orti. C’erano dei piccoli pony al pascolo, e nel vederlo scapparono. Lui non li inseguì. Non capiva più quale fosse il funzionamento della partita. Ai vecchi tempi, quando per primo aveva raggiunto la Fine del Mondo, tutto era combattimenti o enigmi da risolvere: sconfiggi l’avversario prima che lui uccida te, o escogita uno stratagemma per superare l’ostacolo. Adesso invece nessuno lo attaccava, non c’era da battersi, e dovunque andasse non si trovava davanti nessun ostacolo.
Salvo che, naturalmente, nella stanza del castello oltre la Fine del Mondo. Quello era rimasto l’unico luogo pericoloso. E Ender, benché avesse più volte giurato di non farlo più, continuava a ritornare là, continuava ad uccidere il serpente, e a guardare in faccia suo fratello. E ogni volta, qualunque azione intraprendesse, era morto lì dentro.
Neppure quella sera la cosa fu troppo diversa. Cercò di usare il coltello che c’era sul tavolo per scavar via la calcina ed estrarre una delle pietre del muro. Appena vi fu riuscito dal varco schizzò fuori un getto d’acqua, e a Ender non rimase che guardare lo schermo mentre la sua figura, ormai fuori controllo, si agitava follemente per restare in vita. La finestra della stanza era scomparsa; l’acqua salì e la sua figura annegò. Per tutto il tempo la faccia di Peter Wiggin rimase visibile nello specchio, con gli occhi fissi su di lui.