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Questo è ciò che sto facendo a te, Bean. Ti ferirò perché tu diventi capace di sopportare le ferite. Ti costringerò a stare all’erta contro di me per svegliare il tuo ingegno. Ti insegnerò ad abituarti alla tensione. Ti terrò sempre sbilanciato, mai sicuro di quel che sta per succederti, in modo che tu sia pronto a ogni cosa, pronto a improvvisare, e deciso a vincere ad ogni costo. E ti farò anche sentire un misero reietto. Ecco il motivo per cui ti hanno messo con me, Bean: perché tu possa essere come me. Perché tu cresca camminando sulle mie stesse orme.

Ed io… si suppone che io debba crescere come Graff? Grassoccio e triste e indifferente, manipolando le vite di ragazzini per farli uscire perfetti da questa fabbrica, ufficiali e generali capaci di condurre le astronavi a difesa della patria. Tu devi aver gustato il piacevole senso di potere del burattinaio, nel costruirli. Finché non ti sei trovato ad avere un soldato migliore di qualsiasi altro. Ma non puoi avere anche questo. Distruggerebbe la simmetria della tua opera. Devi rimetterlo in riga allora; o schiacciarlo, isolarlo e colpirlo finché lui non si rimetterà in fila con tutti gli altri.

Be’, quel che oggi ti ho fatto, Bean, l’ho fatto. Ma ti terrò d’occhio con più comprensione di quel che credi, e quando verrà il momento giusto scoprirai che sono stato tuo amico, e che tu sei il soldato che volevi essere.

Ender non andò in classe quel pomeriggio. Rimase disteso sul letto e mise per iscritto le sue impressioni su ognuno dei ragazzi dell’orda, le loro caratteristiche psicofisiche e i dettagli su cui questo o quello avrebbe dovuto lavorare di più. Agli allenamenti di quella sera avrebbe parlato con Alai, e insieme avrebbero studiato il modo di insegnare a un gruppo eterogeneo fino a portare i singoli allo stesso livello. Almeno in questa difficoltà non avrebbe dovuto agire da solo.

Ma quando quella sera arrivò in sala da battaglia, mentre quasi tutti erano ancora a mensa, trovò sulla porta il maggiore Anderson che lo aspettava. — Ci sono state alcune modifiche al regolamento, Ender. Da ora in poi soltanto membri della stessa orda potranno lavorare insieme nelle ore libere, e di conseguenza le sale di battaglia dovranno essere frequentate secondo orari programmati. Da oggi il tuo turno è ogni quattro giorni.

— Nessun altro sta facendo allenamenti extra.

— Li hanno in progetto, Ender. Ora che tu comandi un’altra orda, i tuoi colleghi non vogliono che i loro ragazzi ti frequentino. E mi sembra comprensibile, no? Così ognuno condurrà i suoi programmi di allenamento.

— Fin’ora ho pur sempre fatto parte di orde loro avversarie. E mi hanno ugualmente mandato soldati da addestrare.

— Ma non eri un comandante.

— Voi mi avete dato un’orda completamente grezza, maggiore Anderson, signore…

— Hai un certo numero di veterani.

— Non sono certo eccezionali.

— Nessuno viene qui alla Scuola se non ha grosse doti, Ender. Impara a renderli migliori.

— Ho bisogno di Alai e Shen per…

— È tempo che tu cresca e faccia le tue cose da solo, Ender. Non hai bisogno che questi altri ragazzi ti tengano la manina. Adesso sei un comandante. Perciò fammi il favore di agire di conseguenza.

Ender oltrepassò Anderson e proseguì verso la sala di battaglia. Poi si fermò. — Dato che anche gli allenamenti serali sono ora regolarmente programmati, potrò usare il radiogancio come in quelli normali?

Era un sorriso quello di Anderson? No. Neppure una minima probabilità che lo fosse. — Vedremo — fu la risposta.

Ender si volse e andò in sala di battaglia. Da lì a poco arrivò la sua orda; ma nessun altro si fece vedere, sia perché Anderson fosse rimasto fuori a intercettare chi stava arrivando, sia che già nella Scuola si fosse sparsa la voce che le serate informali sotto la direzione di Ender erano un capitolo chiuso.

Fu un allenamento fruttuoso e i ragazzi fecero qualche passo avanti, ma al termine Ender era sfinito e si sentiva solo. C’erano ancora trenta minuti prima dell’ora di andare a letto. Non voleva accompagnare l’orda in camerata; aveva imparato da tempo che i migliori comandanti se ne stavano lontani, a meno che non avessero una buona ragione per addentrarsi fra le brande. I ragazzi dovevano avere la possibilità di starsene in pace, di rilassarsi, senza nessuno che fosse lì a farsi un’opinione di loro dal modo in cui parlavano o agivano fuori orario.

Così andò a bighellonare in sala giochi, dove qualche altro ragazzo stava sfruttando l’ultima mezz’ora prima della campanella per fare una scommessa o battere un punteggio fatto in precedenza. Nessuna delle macchine lo attirava, ma fece ugualmente una partita su una di quelle disegnate più che altro per i principianti. Annoiato, ignorò gli obiettivi del gioco e fece uso della figura mobile, un orso, per esplorare lo scenario animato che il programma conteneva.

— Non vincerai mai a quel modo.

Ender sorrise. — Ho sentito la tua mancanza stasera, Alai.

— Io ero in sala. Ma loro hanno fatto entrare la tua orda in qualche altro posto separato. Sembra che adesso tu sia diventato uno dei grandi, e che non potrai più giocare con noialtri piccoletti.

— Tu sei almeno un cubito più alto di me.

— Un cubito! Forse Dio ti ha ordinato di costruire una barca, o ti ha dato le misure per un tempio? O sei improvvisamente d’umore arcaico?

— Non arcaico, forse arcano. Segreto, tortuoso e incomprensibile. Sento già la tua mancanza, volpone circonciso.

— Non te l’hanno detto? Ora siamo nemici acerrimi. La prossima volta che ci incontreremo in battaglia dovrò darti una brutta strigliata.

Erano le solite battute, ma adesso c’era troppa verità dietro di esse. Sentendo Alai parlarne come se tutto fosse uno scherzo Ender si rese dolorosamente conto che quella nuova regola lo allontanava da un amico, e il suo malumore aumentò quando si chiese se Alai provava davvero la tristezza che aveva cercato di comunicargli con quella frase.

— Puoi sempre provarci — disse Ender. — Ti ho insegnato tutto quello che sai. Ma non ti ho insegnato tutto ciò che io so.

— Sapevo perfettamente che ti stavi tenendo da parte qualche trucchetto, Ender.

Una pausa. L’orso di Ender era nei guai, sullo schermo. Si arrampicò su un albero. — No, Alai. Non mi tenevo da parte niente con te.

— Lo so — disse l’altro. — Neppure io.

— Salaam, Alai.

— Non credo che ci sarà.

— Che non ci sarà cosa?

— La pace. È questo che salaam significa. La pace sia con te.

Quelle parole risvegliarono un’eco nella memoria di Ender. La voce di sua madre che gli leggeva una storia, da bambino. Non illuderti che io sia venuto a portare la pace sulla Terra. Io non vengo a portare la pace, ma una spada. E con la fantasia aveva visto Peter incedere sui cadaveri dei suoi nemici con uno spadone rosso di sangue fra le mani. Quelle parole e quell’immagine erano rimaste a lungo nella sua mente.

Senza un lamento l’orso morì. Fu una morte divertente, accompagnata da una musichetta allegra. Ender si volse e vide che Alai era già andato via. Ebbe l’impressione di aver perso una parte di se stesso, un sostegno interno che gli dava coraggio e sicurezza. Con Alai, assai più che con Shen, era giunto a provare un’affinità così forte che il noi gli saliva alle labbra molto più facilmente della parola io.