Ma c’era qualcosa di strano, di sbagliato. Bee ci rifletté un momento e capì di cosa si trattava. Quella formazione non poteva aver invertito il volo a mezz’aria senza che qualcuno non si fosse spinto nella direzione opposta, e se questo qualcuno era partito con tanta forza da rimandare indietro la massa dei suoi compagni doveva esser schizzato via a gran velocità. Ringhiando un’imprecazione Bee si volse.
Ed era là: sei ragazzi con l’uniforme dei Draghi, proprio attaccati alla porta dei Grifoni e delle Tigri. Non c’erano arrivati sani, però, e con sollievo Bee vide che almeno cinque erano parzialmente inabilitati; soltanto uno era ancora intatto. Niente di cui preoccuparsi, dunque, si disse Bee. Puntò la pistola su uno di loro, prese con calma la mira, tirò il grilletto e…
Non accadde niente.
Le luci si accesero.
La battaglia era finita.
Anche se li aveva guardati e continuava a guardarli, Bee ci mise un po’ per capire cos’era successo. Quattro Draghi avevano posto il casco a contatto degli angoli luminosi della porta. E un quinto ci era passato attraverso. Insomma, avevano compiuto il rituale dell’apertura della porta nemica, e nient’altro. La loro orda era praticamente distrutta, non avevano inflitto ai Grifoni e alle Tigri la minima perdita, e avevano avuto l’incredibile sfacciataggine di andare a compiere il rituale della vittoria, causando l’accensione delle luci e la fine della battaglia.
Soltanto allora nella mente di William Bee si fece strada il sospetto che l’orda dei Draghi avesse non solo posto fine alla partita: esisteva la possibilità che, stiracchiando le regole, l’avessero anche vinta. Dopotutto, qualunque cosa accadesse in quel locale, un’orda non veniva registrata come vittoriosa finché i superstiti non fossero riusciti a toccare contemporaneamente i quattro angoli della porta nemica, mentre un quinto passava oltre nel corridoio. Di conseguenza se ne poteva arguire che il rituale della vittoria fosse la vittoria. Comunque, le apparecchiature automatiche della sala di battaglia avevano reagito a quel gesto, decretando la fine.
La porta degli insegnanti si aprì, e il maggiore Anderson fluttuò all’interno. — Ender! — chiamò, guardandosi attorno.
Uno dei Draghi completamente congelati mandò un mugolio all’interno del casco ermeticamente chiuso. Anderson usò il radiogancio per avvicinarlo e lo scongelò.
Ender stava sorridendo. — L’ho sconfitta di nuovo, signore — disse.
— Questo è un controsenso, Ender — rispose l’ufficiale, — I tuoi avversari erano i Grifoni e le Tigri.
— Fino a che punto crede che io sia stupido? — chiese Ender.
Ad alta voce Anderson annunciò: — Dopo questa… uh, manovra, tutto il regolamento sarà revisionato, introducendo l’obbligo che ogni soldato nemico sia congelato o disabilitato prima che la porta possa essere riaperta.
— Comunque, la cosa poteva funzionare soltanto una volta — aggiunse Ender.
Anderson gli consegnò il radiogancio. Ender scongelò i ragazzi tutti insieme. Al diavolo il protocollo. Al diavolo tutto. - Ehi! — gridò poi, mentre Anderson usciva. — Cosa farete la prossima volta? La mia orda chiusa in una gabbia e senz’armi, e con tutto il resto della scuola contro di noi? A quando uno scontro da pari a pari?
Nella sala si alzò un mormorio di consensi, e non soltanto da parte dei Draghi. Anderson non si prese la briga di voltarsi per replicare alla sfida di Ender. Fu William Bee a rispondergli: — Ender, se tu sei con una delle due parti in lotta non sarà mai uno scontro pari, qualunque cosa studino quelli.
— Proprio così! È vero! — esclamarono i ragazzi. Molti di loro risero. Talo Momoe cominciò a battere le mani e a gridare: — En-der! En-der! En-der! — Le sue Tigri e i Grifoni lo imitarono quasi tutti, applaudendo e continuando a ridere divertiti.
Dopo aver stretto la mano a Bee e a Momoe, Ender uscì dalla porta nemica. I suoi soldati gli si accodarono, e il coro di quelli che continuavano a gridare il suo nome li seguì lungo i corridoi.
— Ci alleniamo, stasera? — domandò Tom il Matto.
Ender scosse la testa.
— Domani mattina, allora?
— No.
— Be’, quando?
— Mai più, per quello che riguarda me.
Alle sue spalle si levarono dei mormorii.
— Ehi, questo non è leale — disse uno dei ragazzi. — Non è colpa nostra se gli insegnanti stanno stravolgendo le gare. E non puoi smettere di insegnarci e di guidarci soltanto perché…
Ender sbatté una mano aperta contro il muro e si volse di scatto. — Non mi importa più un accidente di queste gare! — Il suo grido echeggiò lungo il corridoio delle camerate. Ragazzi di altre orde misero la testa fuori dalle loro porte. Nel silenzio la voce di lui suonò bassa e secca: — Non me ne importa. Chiaro? È finito — sussurrò. — Il gioco è finito.
Senza guardare nessuno tornò in camera sua. Avrebbe voluto sdraiarsi, ma quando toccò il letto lo sentì ancora umido. Questo gli ricordò quel che gli era successo, e furioso strappò via le lenzuola e il materasso scaraventando tutto quanto nel corridoio. Poi arrotolò una tuta per farne un cuscino e si sdraiò sulla rete elastica del letto. Era scomoda, ma gli parve perfettamente intonata alle sue riflessioni.
Le stava rimuginando da non più di dieci minuti quando qualcuno bussò alla porta.
— Andatevene — borbottò. Ma chiunque fosse non lo udì, o non gli importava. Alla fine Ender gli disse di entrare.
Era Bean.
— Vattene, Bean.
Il ragazzo annuì, ma non si mosse. Con aria imbarazzata si guardò le scarpe. Il primo impulso di Ender fu di mettersi a urlare, di maledirlo e di ordinargli di lasciarlo in pace. Poi notò l’aspetto teso e depresso di Bean, le sue spalle curve per la stanchezza, gli occhi cerchiati dalla mancanza di sonno; e tuttavia la sua pelle era liscia e quasi trasparente, la pelle di un bambino. Le guance tenere di un bambino, i fianchi snelli di un bambino. Non aveva neppure otto anni. Per quanto fosse brillante, volonteroso e deciso era un bambino. Era giovane.
No, non lo è del tutto, si corresse Ender. Piccolo, certo. Ma sa già cosa significa battersi con una truppa che dipende da lui e dalla sua squadra, e ci ha dato la vittoria con la sua risolutezza. Non c’è niente di infantile in questo.
Interpretando il silenzio e l’espressione di Ender come un consenso, Bean chiuse la porta e si avvicinò al suo letto. Solo in quel momento lui vide che aveva in mano un foglio.
— Sei stato trasferito? — gli chiese. Era incredulo, ma la voce che si sentì uscire di bocca era smorta e piatta.
— All’orda delle Lepri.
Ender annuì. Naturalmente. Era ovvio. Se io ho un’orda che non può essere sconfitta, quelli devono togliermela. - Carn Carby è in gamba — sospirò. — Spero che sappia riconoscere i tuoi meriti.
— Carn Carby è stato promosso oggi. Glie l’hanno fatto sapere poco fa, mentre eravamo in sala di battaglia.
— Bene. Adesso chi è al comando dell’orda?
Bean allargò le braccia con aria rassegnata. — Io.
Ender fissò lo sguardo sul soffitto e annuì. — È naturale. Dopotutto sei soltanto quattro anni più giovane dell’età prevista.
— Non mi sembra divertente. Non so cosa stia succedendo qui. Tutti quei cambiamenti nelle gare. E adesso questo. Io non sono il solo a essere trasferito, sai. Hanno promosso metà dei comandanti, e messo un bel po’ di noialtri al comando delle loro orde.
— Chi di noi?
— Sembra che… tutti i capibranco e i loro vice.