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C’era qualcosa di molto antipatico anche nelle proporzioni dei locali: i soffitti erano troppo bassi per la loro ampiezza, e i tunnel troppo stretti. Non era un posto costruito a misura d’uomo.

Ma la cosa meno sopportabile di tutte era l’affollamento. Ender non aveva esperienze di vita in città terrestri di medie o grosse dimensioni. Il suo concetto di località abitata s’era formato alla Scuola di Guerra, dove aveva conosciuto almeno di vista ogni persona. All’interno di quella roccia vivevano invece oltre diecimila anime. Non che mancasse lo spazio, malgrado la gran quantità di macchinari e di attrezzature di supporto. Ciò che infastidiva Ender era il vedersi costantemente d’attorno facce sconosciute.

Il tempo di farsi delle conoscenze non gli era concesso. Vedeva una gran quantità di altri studenti della Scuola Ufficiali, ma poiché il suo programma lo costringeva a migrare da un corso all’altro essi restavano soltanto dei volti. Assisteva a una lezione qui e a una conferenza là, tuttavia di solito l’uno o l’altro insegnante si occupava privatamente di lui; oppure a mostrargli tecniche e procedimenti era uno studente anziano che prima e dopo quella particolare circostanza non incontrava mai più. Pranzava da solo o con il colonnello Graff. La sua sola ricreazione era in palestra, e anche lì difficilmente vedeva due volte di seguito le stesse persone.

Sapeva bene che lo stavano isolando ancora, non più con la tattica di renderlo inviso agli altri studenti, ma piuttosto privandolo dell’opportunità di farsi degli amici. Difficilmente, comunque, avrebbe potuto legare con la maggior parte di loro: quasi tutti gli allievi s’erano già lasciati alle spalle la prima adolescenza.

Così s’immerse nello studio, desiderando solo imparare presto e bene. L’astrogazione e la storia militare erano materie che assorbiva come acqua, la matematica nelle sue forme più astratte gli dava delle difficoltà, ma quando doveva risolvere problemi che coinvolgevano lo spazio e il tempo scopriva che il suo intuito era più affidabile anche dei calcoli, e spesso vedeva la soluzione prima di poterla provare sotto forma di noiose e snervanti equazioni.

E per il suo divertimento c’era il simulatore, il più perfezionato videogame a cui avesse mai giocato. Studenti e insegnanti lo guidarono passo per passo entro le complessità di quei programmi. Dapprima, non conoscendo le impressionanti potenzialità delle partite, aveva giocato soltanto a livello tattico, controllando un singolo astrocaccia in continue manovre tese alla ricerca e alla distruzione del nemico. L’avversario, controllato dal computer, era sempre astutissimo e potente, e qualunque tattica escogitasse Ender scopriva, da lì a pochi minuti, che il computer sapeva rivolgerla contro di lui.

La partita era giocata in un campo olografico tridimensionale, ed il suo astrocaccia era rappresentato da un piccolo punto luminoso. Il nemico era una lucciola di colore diverso, ed entrambi volavano e combattevano entro un cubo di spazio di dieci metri per dieci. I comandi davano ampie possibilità: il campo cubico poteva esser fatto ruotare su se stesso, in modo che il giocatore lo osservasse da un angolo visivo a suo piacimento, e lo spazio contenuto all’interno si spostava automaticamente o su ordinazione per trasferire il duello in zone sempre nuove.

Pian piano, mentre s’impratichiva nel controllo tecnico dell’astrocaccia e nelle possibilità d’impiego delle sue armi, le partite si fecero più complesse. Poteva trovarsi di fronte due o più navi nemiche; c’erano ostacoli tipo detriti cosmici di cui si doveva calcolare la rotta o campi gravitazionali dei quali prevedere l’attrazione, e il giocatore era costretto a chiedere ed elaborare questi dati su dei monitor ausiliari. Per buona parte del combattimento ci si doveva preoccupare delle scorte di carburante o di energia, o di improvvisi guasti nei sistemi d’arma. Il computer cominciò ad assegnargli anche compiti particolari da portare a termine, come manovre di soccorso o di retroguardia eseguite in condizioni anomale o disagevoli.

Quando ebbe padroneggiato a dovere l’astrocaccia gli fu data la conduzione di una squadra di quattro incrociatori. Poteva parlare a voce, sgranando raffiche di ordini vuoi ai piloti vuoi agli addetti alle batterie, o al resto del personale delle quattro grosse navi. E invece di eseguire le istruzioni di un ipotetico comando supremo gli era concesso di determinare lui stesso la strategia, stabilendo quale dei molti obiettivi era il più importante da raggiungere. Aveva la possibilità di programmare tre degli incrociatori e lasciarli agire da soli, mettendosi personalmente alla manovra del quarto, e dapprima scelse spesso questo modo d’agire. In tali circostanze tuttavia i tre incrociatori facevano in breve una brutta fine, e la partita diventava assai più dura, cosicché dovette lavorare settimane e mesi per imparare il controllo dello squadrone al completo. Quando cominciò a riuscirci le sue vittorie divennero più frequenti.

Al termine del suo primo anno alla Scuola Ufficiali fu in grado di usare il simulatore a ciascuno dei quindici livelli di difficoltà, ovvero dal controllo di un singolo astrocaccia al comando di un’intera flotta. Già da tempo s’era accorto che il simulatore della Scuola Ufficiali aveva scopi analoghi a quelli della sala di battaglia alla Scuola di Guerra. Le lezioni teoriche avevano la loro importanza, ma le cognizioni ottenute e le capacità personali del singolo erano controllabili solo al momento in cui egli si applicava al simulatore.

Di tanto in tanto s’accorgeva che dietro di lui, nei posti riservati agli spettatori, qualcuno lo osservava giocare. Gli studenti o l’altro personale non aprivano mai bocca, ma a volte un insegnante interveniva, se aveva qualcosa di specifico di cui informarlo. Ender imparò a ignorare quel piccolo pubblico che in silenzio lo guardava affrontare complesse situazioni simulate ed infine se ne andava senza alcun commento. Ebbene, vi siete divertiti? avrebbe voluto chieder loro. Mi avete giudicato? Avete deciso se vi fidereste a far parte di una flotta comandata da me? Ma ricordate che non ho chiesto io d’essere il candidato al comando supremo.

Trovava che gran parte dei concetti da lui sviluppati in sala di battaglia potevano essere trasferiti al simulatore, e ogni pochi minuti faceva ruotare del tutto il campo olografico per non restare intrappolato in un’orientazione alto-basso, riesaminando costantemente la sua posizione anche dal punto di vista del nemico. Era esilarante avere quel controllo esterno su una battaglia, partecipandovi sia dal ponte di comando di un’astronave che da qualsiasi luogo al di fuori di essa.

Ed era frustrante avere nello stesso tempo ai suoi ordini astronavi così limitate, perché quelle che metteva sotto il controllo del computer diventavano oggetti computerizzati. Non avevano iniziativa, ma soltanto una programmazione. Non avevano intelligenza. Cominciò a provare molta nostalgia dei suoi capibranco dell’orda dei Draghi, ragazzi che avrebbe potuto piazzare al comando dei vari squadroni e che avrebbero agito bene senza bisogno della sua costante supervisione.

Alla fine del primo anno stava vincendo ogni battaglia sul simulatore, e giocava come se i comandi e i monitor fossero estensioni del suo corpo. Un giorno, mentre mangiava insieme a Graff, gli domandò: — Ciò che fa il simulatore è tutto qui?

— Tutto in che senso?

— Il modo in cui va il gioco. Troppo liscio. Da tempo non trovo più ostacoli e difficoltà nuove.

— Ah!

Graff parve indifferente alla cosa. Ma Graff aveva una maschera indifferente per costituzione. Il giorno dopo le cose cambiarono: Graff non si fece vedere, e al suo posto Ender si vide dare un nuovo compagno.

L’uomo era già in camera sua quando Ender si svegliò, quel mattino. Era piuttosto anziano, e stava seduto sul pavimento a gambe incrociate. Il ragazzo si sfregò le palpebre e lo fissò in silenzio, aspettando che dicesse qualcosa. Lui non aprì bocca. Ender si alzò, si lavò la faccia e si vestì, lasciando che lo sconosciuto mantenesse il silenzio finché gli faceva piacere. Aveva già appreso da tempo che quando c’era in corso qualcosa d’insolito, qualcosa che era parte dei piani di qualcun altro e non dei suoi, otteneva maggiori informazioni aspettando piuttosto che chiedendo. Quasi tutti gli adulti perdevano la pazienza assai prima di lui.