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Tuttavia non ne fece parola. Mazer gli aveva detto che lì non c’era posto per la compassione, e la sua infelicità personale non significava niente per nessuno. Per la maggior parte del tempo non significava niente neppure per lui. Concentrava sul lavoro ogni sua facoltà, spremendo il massimo di informazioni dalle battaglie simulate, e non si limitava a imparare passivamente questa o quella lezione ma cercava di estrapolare ciò che gli Scorpioni avrebbero fatto se fossero stati più abili, e come lui avrebbe reagito a questi loro miglioramenti. Dentro di lui continuavano a svolgersi le ultime battaglie e si svolgevano già quelle che si aspettava nei giorni successivi, sia che dormisse o fosse sveglio, e metteva alla frusta i suoi comandanti di squadrone con una durezza che di tanto in tanto li induceva a reagire.

— Devo osservare che sei un po’ troppo mite con noi — lo provocò un giorno Alai. — Perché non fai mai fucilare chi non è al massimo della sua genialità bellica? Coccolandoci a questo modo finirai col rovinarci.

Qualcuno degli altri rise nel suo microfono. Ma l’ironia era troppo scoperta, e Ender si limitò a rispondere con un lungo silenzio. Infine decise che gli conveniva ignorare quel tipo di commenti. — Ricominciamo daccapo — ordinò. — Stavolta senza che io sia costretto a pensare che qualcuno di voi ha bisogno d’essere sostituito. — La serie di manovre fu ripetuta senza più errori.

Ma mentre il loro rispetto per le sue doti di comandante si accresceva, l’amicizia che li aveva uniti a lui nella vecchia Scuola di Guerra svaniva pian piano. Era fra loro che formavano un gruppo, era fra loro che si scambiavano confidenze. Ender rappresentava soltanto una fonte di ordini, un insegnante, una voce negli orecchi, ed era distante da loro come Mazer lo era da lui. E non meno esigente.

Questo accresceva la loro efficienza in battaglia. E aiutava Ender a concentrarsi sul suo lavoro.

Di giorno, se non altro, e la sera dopo cena, quando tornava in camera con gli avvenimenti del simulatore che gli scorrevano nella mente. Ma nel sonno erano altre le immagini da cui non sapeva liberarsi. Spesso rivedeva il corpo del Gigante in stato di avanzata putrefazione, ma non come sullo schermo del banco: era reale, solido, e torreggiava su di lui emanando l’orrido puzzo della carne morta. Il piccolo villaggio nato nei meandri della sua ossatura era adesso abitato da Scorpioni, ed essi salutavano il suo passaggio sollevando una chela, come gladiatori che onorassero il pretore romano prima di morire per il suo divertimento. In quei sogni non provava odio per gli Scorpioni, e anche quando capiva che gli stavano nascondendo la loro regina non si metteva a cercarla. S’allontanava svelto dal corpo del Gigante, e allorché giungeva sul parco dei giochi i bambini erano sempre lì, lupeschi e ghignanti. E avevano facce a lui ben note. Talora Peter, talaltra Bonzo, a volte Stilson e Bernard; ma abbastanza spesso fra quelle selvagge creature c’erano Alai e Shen, Dink e Petra, e non di rado la stessa Valentine; tuttavia nel sogno lui la gettava nel torrente come gli altri e aspettava che affogasse, tenendola sotto a viva forza. Fra le sue mani lei si divincolava, lottava per riemergere, e alla fine si abbandonava inerte. Lui la tirava fuori dal lago e la stendeva sulla zattera, poi contemplava il suo volto contratto nel rictus vacuo della morte. Allora gemeva e piangeva su di lei, gridando e continuando a gridare che quello era un gioco, un gioco, un gioco!…

Poi una mano lo scuoteva, strappandolo dall’incubo. — Stavi gridando nel sonno — diceva la voce di Mazer Rackham.

— Uh… scusi — borbottava Ender.

— Non fa niente. È ora di alzarsi. Oggi c’è battaglia.

Il ritmo di lavoro si faceva sempre più intenso. Passarono a due battaglie al giorno, e Ender dovette ridurre al minimo le ore di addestramento. Mentre poi gli altri studiavano le registrazioni degli ultimi scontri simulati lui restava in silenzio a meditare sui suoi punti deboli, a ipotizzare quel che avrebbero potuto costargli in futuro. A volte era già preparato ad affrontare le innovazioni del nemico, a volte no.

— Credo che lei stia imbrogliando — disse un giorno a Mazer.

— Io?

— Lei può vedere tutte le mie sedute di preparazione, e si studia quello su cui sto lavorando, eh? Mi sembra stranamente pronto a contrastare certi miei stratagemmi.

— Quello che ti trovi di fronte è per la maggior parte simulazione computerizzata — replicò Mazer. — E il computer è programmato per rintuzzare le tue tattiche, dopo che ne hai fatto uso una volta.

— Allora è il computer più subdolo che ci sia, perché riesce a imbrogliare la sua stessa programmazione.

— Ender, tu hai bisogno di dormire di più.

Ma l’insonnia cominciava a tormentarlo. Ogni notte restava sveglio più a lungo, per poi cadere in un sonno che non lo riposava affatto. E nel buio si destava spesso, senza capire se era per l’inconscio bisogno di ripensare da sveglio al lavoro oppure soltanto per sfuggire ai sogni. Era come se qualcuno dirigesse il suo sonno dall’esterno, costringendolo a vagare entro i suoi ricordi peggiori ed a riviverli in modo distorto ma realistico. Alcune delle sue notti riuscivano a essere perfino più reali dei giorni. Cominciò a rendersi conto che la tensione aveva un prezzo, e che al simulatore la sua lucidità era in ribasso. All’inizio di ogni battaglia c’era sempre un afflusso di adrenalina che lo stimolava, ma poi era tutta una discesa. E se le sue capacità mentali avessero avuto delle pause, si chiedeva, chi lo avrebbe notato?

Stava lentamente scivolando. Erano lontani i giorni in cui poteva vincere una battaglia perdendo soltanto pochi astrocaccia. Adesso il nemico riusciva a mettere in evidenza i suoi punti deboli, forzandolo sulla difensiva; oppure prolungava lo scontro in una sorta di guerra d’attrito dove la vittoria finiva per essere una questione di fortuna più che di abilità. E in quei casi Mazer gli faceva riesaminare la registrazione con una smorfia di disgusto. — Guarda come perdi questo incrociatore! — brontolava. — E questa manovra… volevi fare un favore al nemico? — E Ender tornava alla preparazione, all’addestramento, sforzandosi di tenere alto almeno il morale degli altri. Ma non di rado gli sfuggivano rabbiose imprecazioni ai loro errori, in specie quando capiva che dietro di essi c’era una stanchezza maggiore della sua.

— Stiamo facendo troppi sbagli — disse un giorno un sussurro di Petra nei suoi auricolari. Era una richiesta d’aiuto.

— Chi non fa, non falla — borbottò Ender. Se la ragazza aveva bisogno di comprensione, non l’avrebbe avuta da lui. Il suo compito era di addestrarla; che cercasse i suoi amici fra gli altri allievi ufficiali.

Poi ci fu una battaglia che per poco non finì in un disastro. Petra lasciò le sue astronavi troppo lontano dall’azione, e in un momento in cui Ender non era con lei scoprì d’essere attaccata dalla retroguardia degli Scorpioni. In pochi secondi aveva perduto tutte le sue navi salvo due astrocaccia. Ender tornò su di lei e le ordinò di metterli su una rotta di fuga; la ragazza non rispose; i due astrocaccia non si mossero. Dieci secondi dopo una gragnuola di missili li facevano esplodere.

All’istante Ender si rese conto d’averla spinta all’esaurimento nervoso: il coraggio e la freddezza di Petra lo avevano indotto a utilizzarla più spesso degli altri, e in situazioni sempre fra le più dure. Ma non ebbe il tempo di preoccuparsi di Petra, o di sentirsi in colpa per ciò che le avevano fatto. Incaricò Tom il Matto di spostarsi per impedire alla retroguardia nemica di trasformarsi in un’ala tattica, e cercò di salvare il salvabile. Ma Petra aveva occupato una posizione chiave, e adesso la sua strategia era andata a rotoli. Se il nemico fosse stato soltanto un po’ più rapido a sfruttare il varco creato dall’allontanamento di Tom, Ender avrebbe perso. Invece gli Scorpioni attaccarono in quel punto stando troppo vicini l’uno all’altro, e Shen riuscì ad annientare quell’intera formazione con una singola reazione a catena. Tom il Matto dovette lottare, preso fra due fuochi, e Shen fece rotta in suo soccorso. Un quarto d’ora dopo, quando entrambi avevano perduto quasi tutte le loro navi, Mosca Molo riuscì a intervenire e grazie a lui ottennero una faticosissima vittoria.