Alla fine della battaglia poté sentire Petra piangere in un sottofondo di voci, probabilmente già lontana dal suo microfono. — Ditegli che mi dispiace… ero stanca — gemette la ragazza. — Non riuscivo più a pensare. Non ci riuscivo. Dite a Ender che sono mortificata, ma…
Petra non partecipò alla battaglia nei dieci giorni successivi, e quando infine tornò al lavoro non era più né svelta né salda di nervi come in passato. Molto di ciò che aveva fatto di lei un’ottima comandante di squadrone era perduto. Ender lo vide ed evitò di tenerla in prima linea, affidandole solo missioni ausiliarie e di copertura. La ragazza non si lasciò menare per il naso; sapeva quel che stava succedendo. Ma sapeva anche che Ender non aveva altra scelta, e si rassegnò.
Restava il fatto che aveva ceduto, e non era certo che la più fragile dei comandanti di squadroni. Ender lo prese come un avvertimento: non doveva spingere gli altri al limite delle risorse umane. Da quel momento, invece di sfruttare la loro abilità come parte integrante delle sue tattiche, avrebbe dovuto pensare a risparmiarli. Cominciò a sostituirli, e questo lo costrinse ad affrontare le battaglie con comandanti di squadrone di cui si fidava un po’ meno. Ma rilassare la pressione su di loro significò vederla aumentare su se stesso.
Una notte si svegliò mugolando di dolore. Aveva in bocca il sapore del sangue, e il suo cuscino era bagnato, appiccicoso. Sollevò le mani, tremanti, e capì d’essersi morso le dita nel sonno. Il sangue continuava a ruscellargli giù per i polsi. — Mazer! — chiamò. Rakham si alzò e fece subito arrivare un medico.
Mentre la ferita gli veniva curata e bendata, Mazer lo fissò. — Non mi preoccupa molto ciò che mangi, Ender, ma devi spingere l’auto-cannibalismo ben più oltre se vuoi essere escluso dalla Scuola Ufficiali.
— Stavo dormendo — disse lui. — Ma se pensa che io sia il tipo che per uscire si spara in un piede, Mazer, è lei ad avere bisogno del medico.
— Bene.
— Gli altri, quelli che non ce l’hanno fatta…
— Di cosa stai parlando?
— Quelli prima di me. I suoi allievi che non hanno superato l’addestramento. Cosa ne è successo?
— È successo che non ce l’hanno fatta. Nient’altro. Credevi che gli avessimo sparato alla nuca? Sono finiti altrove.
— Come Bonzo.
— Bonzo?
— L’hanno rimandato a casa.
— No, non come Bonzo.
— E allora cosa? Che gli è successo quando hanno fallito?
— Che importanza ha questo, Ender?
Lui non rispose.
— Nessuno di loro ha fallito a questo punto del corso, Ender. Con Petra hai fatto uno sbaglio. Pian piano si riprenderà. Ma Petra è Petra, e tu sei tu.
— Parte di lei è in me. Anche lei ha fatto di me quello che sono.
— Tu non fallirai, Ender. Non così presto. Spesso hai dovuto sfangarla dura, ma hai sempre vinto. Dunque ancora non sai quali sono i tuoi limiti; ma se li avessi già raggiunti saresti molto più delicato di quel che m’era parso.
— Sono morti?
— Chi?
— Quelli che hanno fallito.
— No, non sono morti. Per Cristo, ragazzo, quelle che stai giocando sono battaglie simulate!
— Credo che Bonzo sia morto. L’ho sognato l’altra notte. Ricordo lo sguardo che aveva quando l’ho colpito al volto con la nuca. Penso di avergli spinto le ossa nasali nel cervello. Il sangue gli usciva dagli occhi. Credo che sia morto in quel momento…
— È stato soltanto un sogno.
— Mazer, non voglio continuare a sognare queste cose. Ho perfino paura di dormire. Sono costretto a ripensare a cose che non voglio ricordare. Tutto il passato mi ripassa nella testa, come se io fossi un registratore e qualcuno mi accendesse per tirarne fuori le cose più terribili della mia vita.
— Possiamo anche imbottirti di tranquillanti, se è questo che chiedi. Mi rattrista molto che tu faccia brutti sogni. Vuoi che ti compri un orsacchiotto da tenere fra le braccia?
— Non mi prenda in giro! — protestò Ender. — Ho paura che finirò per impazzire.
Il dottore aveva fissato il bendaggio e si alzò. Mazer lo ringraziò e attese che fosse uscito. — È davvero questa la tua paura? — chiese.
Lui ci pensò sopra e non seppe cosa rispondere. — Nei sogni che faccio — mormorò, — non sono neppure sicuro d’essere me stesso.
— I sogni strani sono una valvola di sfogo, Ender. Io ti ho messo sotto pressione, ed è un momento critico nella tua vita. La psiche reagisce alla tensione, e nient’altro. Ora non sei più un bambino, ed è tempo che tu la smetta di aver paura la notte.
— Saggio consiglio — annuì Ender. E decise che non avrebbe mai più parlato dei suoi sogni a Mazer.
I giorni si susseguirono, e le battaglie richiesero sempre più energia psicofisica, finché Ender seppe d’essere sul binario vertiginoso dell’autodistruzione. Cominciò ad avere forti dolori allo stomaco. Il dottore gli prescrisse una dieta, ma presto perse completamente l’appetito. — Mangia — gli ordinava Mazer, e lui si portava meccanicamente il cibo alla bocca. Se però nessuno era lì a incitarlo non mangiava neppure un boccone.
Altri due comandanti di squadrone ebbero collassi nervosi uguali a quello di Petra, e le responsabilità che gravavano sui rimanenti si appesantirono. In ogni battaglia adesso il nemico li superava per tre o quattro a uno; inoltre s’era fatto più svelto a ritirarsi quando era in pericolo, e riusciva a prolungare di molto lo scontro. Talvolta occorrevano ore e ore di inseguimenti stressanti prima che l’ultima nave nemica fosse finalmente distrutta. Ender si decise a far ruotare i comandanti di squadrone durante il corso di una stessa battaglia, mettendo ragazzi più freschi e riposati al posto di quelli che cominciavano a diventare tardi di riflessi.
— Sai una cosa? — gli disse una volta Bean, sostituendo Zuppa Cinese al comando dei suoi restanti astrocaccia. — Questo gioco non è più molto divertente.
Poi un pomeriggio, mentre era in piena seduta di addestramento, Ender vide le luci offuscarsi e precipitò nel buio. Quando si risvegliò, steso sul pavimento, qualcuno stava dicendo che s’era spaccato un labbro e un sopracciglio contro il quadro dei comandi.
Lo portarono a letto, e per tre giorni non ebbe la forza di alzare un dito. Dormì quasi sempre, a tratti svegliandosi da sogni in cui ricordava d’aver visto delle facce, ma più che facce di persone vere gli eran parse maschere imperfette portate da misteriosi personaggi onirici. Sognò, o credette di sognare, a volte Valentine e a volte Peter, o i suoi amici della Scuola di Guerra, o gli Scorpioni che lo vivisezionavano. Una volta ebbe un sogno molto realistico in cui vide il colonnello Graff chino su di lui, che gli parlava dolcemente come un padre. Il mattino del quarto giorno aprì gli occhi e vide che nella stanza c’era il suo nemico, Mazer Rackham.
— Sono sveglio — disse Ender.
— Così sembra — annuì Mazer. — Hai riposato abbastanza. Oggi c’è una battaglia.
Quando ebbe scoperto che riusciva a stare in piedi, Ender andò a lavorare al simulatore e vinse lo scontro. Ma quel giorno non ci fu una seconda battaglia, e Mazer lo mandò a letto presto. Spogliandosi era debole e gli tremavano le mani.
Durante la notte gli parve di sentire qualcuno che gli sfiorava il volto con leggerezza. Dita lievi e gentili, un tocco affettuoso. Sognò di udire delle voci.
— Avrebbe potuto essere più comprensivo con lui.
— La comprensione non è in programma.