— È come se un gigante fosse caduto morto qui — disse Abra, — e la terra si fosse ammucchiata sulla sua carcassa.
Adesso Ender sapeva perché quell’immagine gli era entrata dritta nel subconscio. Il corpo del Gigante. Da bambino aveva giocato lì troppe volte per non riconoscere il posto. Ma questo era impossibile. Il computer della Scuola di Guerra non avrebbe mai potuto disporre di dati relativi a quel pianeta. Si portò il binocolo agli occhi e d’istinto scrutò verso est, già tremando all’incredibile sospetto di ciò che avrebbe potuto vedere sullo sfondo dei boschi.
E là, sulla riva di un ruscello, altalene e piccole giostre, un toboga. Il tutto arrugginito e sepolto fra le erbacce, ma non c’era possibilità di sbagliarsi sulle forme di quegli oggetti.
— Qualcuno deve aver costruito, dentro questa collinetta — disse Abra. — Guarda il teschio, e i denti… non è roccia. È cemento.
— Lo so — mormorò Ender. — Loro l’hanno costruito per me.
— Cosa?
— Conoscevo già questo posto, Abra. Gli Scorpioni l’hanno costruito per me.
— Gli Scorpioni erano tutti morti cinquant’anni prima che arrivassimo qui.
— Hai ragione, non è possibile. Ma io so quello che so. Abra, non avrei dovuto portarti con me. Potrebbe esserci un pericolo qui. Se mi conoscevano addirittura fino al punto di aver costruito questo posto, forse progettavano di…
— Di pareggiare i conti con te.
— Per averli uccisi.
— Allora vattene, Ender. Se questa è una trappola devi andartene!
— Se quel che volevano era preparare la vendetta, Abra, non me ne importa. Ma forse non era questa la loro intenzione. Forse ciò che vediamo era quel che avevano di più vicino a una forma di linguaggio… per lasciarmi scritto un messaggio.
— Ma non sapevano neppure cosa significasse leggere o scrivere.
— Forse stavano imparando, prima di morire. Meglio che tu vada via.
— All’inferno! Io non torno al campo mentre tu esplori di qua e di là. Vengo con te.
— No. Sei troppo giovane per rischiare di…
— Giovane un corno! Tu sei Ender Wiggin, perciò non dire a me cosa può fare e non può fare un ragazzo di undici anni!
Stabilirono di prendere l’elicottero, quindi tornarono sorvolando il corpo del Gigante, il parco giochi e la boscaglia, individuando la radura col pozzo. E poco più avanti c’era uno strapiombo, alla sommità del quale videro un cornicione su cui si apriva quella che era senza dubbio una porta di legno, esattamente dove avrebbe dovuto essere la Fine del Mondo. E all’orizzonte, sfumato nella foschia e tuttavia ben visibile sulla cima di un dirupo, c’era il castello. Con la torre.
Fu alla base delle mura corrose dal tempo che Ender atterrò. Scese dall’elicottero e ordinò ad Abra di mettersi ai comandi. — Qualunque cosa accada non seguirmi. Se non torno, decolla e torna a casa.
— Ah, tappati la bocca, Ender!
— Tappatela tu, pivello, o te la riempio di fango.
Malgrado il tono scherzoso di Ender, un lampo nei suoi occhi informò Abra che diceva sul serio, così si strinse nelle spalle.
In muro esterno della torre aveva pietre così sporgenti che sembravano fatte apposta per arrampicarsi. Capì che avevano voluto proprio questo.
La stanzetta in cui entrò scavalcando il davanzale della finestra era proprio come doveva essere, mobili compresi. D’istinto Ender si volse al caminetto, aspettandosi di vedere il serpente, ma c’era soltanto un tronco d’albero con un’estremità scolpita a testa di rettile. Un’imitazione simbolica, non un duplicato, e per essere delle creature che non conoscevano l’arte la cosa era fin troppo ben fatta. Dovevano aver preso quelle immagini della sua stessa mente, contattandola ed esplorandone le fantasie oniriche attraverso l’immensità degli anni-luce. Ma perché? Per suggerire al suo inconscio di venire fin lì, naturalmente. Lì dove c’era un messaggio per lui. Un messaggio… ma dov’era? E di che genere poteva mai essere? L’arcano stupore che s’era impossessato di lui continuava a dargli la pelle d’oca.
Lo specchio era fissato alle pietre della parete di fondo. Era una lastra di metallo opaco, nella quale era stata incisa rozzamente l’immagine di un volto umano. Il suo? Hanno cercato di riprodurre ciò che io vedo quando mi guardo allo specchio.
Fissò quel metallo senza capire. Ma in lui tornavano i ricordi: lo specchio scalzato dal muro, la cavità, i serpenti che ne balzavano fuori e lo attaccavano, affondando i loro denti velenosi sulla sua figura che infine cadeva al suolo uccisa e sconfitta.
Quanto dovevano conoscermi bene! si meravigliò Ender. Abbastanza bene da sapere che ho affrontato tante volte questo genere di morte da non averne più paura… abbastanza da sapere che, se anche avessi paura, questo non m’impedirebbe di staccare lo specchio dal muro.
Si avvicinò alla lastra metallica, sollevò il bordo inferiore e notò che veniva via come un coperchio. Ma niente balzò fuori ad aggredirlo. Ciò che Ender si trovò a fissare era una cavità dalle pareti lisce, sul fondo della quale riposava un ovoide di materiale bianco come la seta da cui, qua e là, pendevano stralci d’aspetto fibroso. Un uovo? No, non si trattava di un uovo: era una pupa, la larva di una regina degli Scorpioni, già fertilizzata dai maschi della sua specie e pronta a dare alla luce centinaia di migliaia di Scorpioni, compresi alcune altre regine ed altri maschi. Gli occhi di Ender stavano captando immagini che non facevano parte dei suoi ricordi, né della sua mente, né del suo mondo: le immagini dei maschi degli Scorpioni, molli e biancastri, che uscivano dall’oscurità di un tunnel. Dalla parte opposta due grosse femmine stavano introducendo la regina neonata nella sua stanza nuziale. Ognuno dei maschi si fece avanti, compì l’atto della penetrazione sulla regina larvale, tremò sconvolto da una breve estasi, cadde al suolo e morì, disseccandosi e accartocciandosi rapidamente. Poi la nuova regina fu deposta dinnanzi a un’anziana e magnifica creatura avvolta in due morbide ali scintillanti, un essere che aveva da molto tempo perso la capacità di volare ma era ancora aureolato di un maestoso potere. La vecchia regina si chinò a baciare la nuova, addormentandola con una droga lievemente venefica che le uscì dalle labbra cornee, quindi l’avvolse con i bianchi filamenti prodotti dal suo addome e nel farlo le comandò di diventare quel che lei era stata: una nuova creatrice, una nuova città, un nuovo mondo, una fonte da cui sarebbero emerse altre regine per popolare altre città e altri mondi…
Come posso sapere tutto questo si chiese Ender. Come posso vedere cose che non sono mai state nella mia memoria?
Quasi in risposta a quella domanda nuove immagini lo sommersero, e riconobbe quelle della prima battaglia contro una flotta degli Scorpioni. Le stesse che aveva osservato sul simulatore, ma capovolte, perché ora le vedeva come le aveva viste la regina di quell’alveare, attraverso moltissimi occhi diversi. Vide gli Scorpioni assumere la loro formazione globulare, sentì la loro sorpresa quando i terribili incrociatori terrestri sbucarono come lampi imprevedibili dalle tenebre; quindi vi furono i bagliori azzurri del distruttore molecolare che faceva esplodere in polvere le navi dell’alveare.
Ender provò le sensazioni che la regina aveva provato e trasmesso ad altre, mentre attraverso gli occhi delle sue operaie/combattenti vedeva piombare sulla flotta una morte troppo rapida perché fosse possibile evitarla. Non erano state sensazioni di paura o di dolore, tuttavia. Ciò che quella regina aveva sentito era stata una grande tristezza, una cupa rassegnazione all’ineluttabile. Non aveva pensato quelle parole, mentre vedeva l’attacco dei terrestri decisi ad uccidere, ma fu in parole che Ender poté tradurre la sua riflessione: Loro non ci hanno perdonato, aveva pensato quella regina. Di certo noi moriremo, adesso.