King lo ringraziò e terminò la comunicazione.
Quando arrivarono alla stazione di polizia, Williams vi entrò a passo di carica, seguito da King.
Che fosse etica professionale o meno, era di nuovo nel proprio ambiente, e si calò immediatamente nel suo ruolo di autorità locale, con tutta l’intenzione di agire da incontestabile capo della polizia. Chiamò con voce tonante il suo vice, lo stesso che lo aveva informato della lettera in codice, e afferrò al volo anche un flacone di Advil dalla sua segretaria. Si riunirono nell’ufficio di Williams, dove questi si lasciò cadere pesantemente sulla poltrona dietro la sua scrivania e inghiottì tre pastiglie di antidolorifico senza acqua. Prima di prendere il foglio di carta e la busta dalle mani del suo vice, disse: «Per favore, dimmi che li hanno già esaminati in cerca di impronte digitali».
Lo avevano fatto, rispose il vicecapo. «Anche se Virgil Dyles, il proprietario della “Gazette”, quando ha ricevuto la lettera con la posta del giorno sulle prime ha pensato a uno scherzo» precisò. «In teoria non ne saremmo neppure stati informati, ma una mia amica giornalista mi ha telefonato dalla redazione del giornale e me lo ha detto. Sono andato subito là e me la sono fatta consegnare. Però per me è incomprensibile.»
«Allora cos’è che ha fatto Virgil?» tuonò Williams. «L’ha mostrata in giro a tutta la redazione?»
«Qualcosa del genere» rispose il vice nervosamente. «È assai probabile che l’abbiano maneggiata in parecchi. Ho raccomandato alla mia amica al giornale di mantenere il massimo riserbo, ma penso che possa aver detto ad alcune persone di ritenere che fosse una faccenda grave.»
Il poderoso pugno di Williams calò con tale forza sul piano della scrivania che sia King sia il vice sussultarono spaventati. «Dannazione! L’inchiesta ci sta sfuggendo di mano. Come diavolo faremo a tenere il massimo riserbo sul caso, se non siamo neppure capaci di tenere sotto controllo la gente di Wrightsburg?»
«Diamo un’occhiata al messaggio» disse King. «Ci preoccuperemo più tardi della fuga di notizie attraverso i media.»
King si sporse sopra la spalla di Williams mentre l’uomo di legge esaminava la busta. Il timbro postale era locale; la lettera era stata imbucata quattro giorni prima, con un francobollo applicato con precisione geometrica. Era indirizzata, in stampatello, a Virgil Dyles alla “Wrightsburg Gazette”. Nell’angolo inferiore destro c’era una piccola croce cerchiata. Lo spazio destinato al mittente era in bianco.
«La busta non rivela granché» sentenziò Williams mentre apriva il foglio piegato in tre. «Forse un esperto è in grado di dirci qualcosa da come lui ha scritto in stampatello l’indirizzo, ha incollato il francobollo e roba del genere. Ma sono dannatamente sicuro di no.»
Il messaggio era scritto con inchiostro nero un po’ scolorito, sempre in stampatello, e le righe erano disposte in colonne a struttura stretta e regolare, sia in orizzontale che in verticale.
«La parte leggermente scolorita e confusa è dovuta alla ninidrina» spiegò il vice. «La usano per “bollire” la lettera in cerca di impronte digitali, sapete.»
«Grazie. Non ci sarei mai arrivato da solo» commentò Williams in tono stizzito.
Tutte le righe erano in codice. Alcuni caratteri erano lettere dell’alfabeto; altri semplici simboli. Williams rimase seduto per alcuni minuti a fissare attentamente l’arcano messaggio. Alla fine emise un sospiro e si abbandonò contro lo schienale della poltrona.
«Non è che per caso sai come decifrare i codici segreti, eh?» chiese a King.
In quell’istante, l’agente Rogers — che aveva fatto coppia con King quando quest’ultimo aveva prestato servizio a tempo parziale nel corpo di polizia di Wrightsburg — bussò alla porta ed entrò, stringendo in mano un fascio di fogli. «Questi sono appena arrivati via fax per Sean.»
King prese in consegna i fogli e disse a Williams: «Ora te lo decifro».
Portò la lettera e le pagine del fax a un tavolino nell’angolo dell’ufficio, si accomodò su una sedia e si mise al lavoro. Dieci minuti dopo alzò lo sguardo. Non c’era di che stare allegri, pensò. Anzi, probabilmente era peggio che avere qualcuno che si dava da fare nella zona imitando il killer dello Zodiaco.
«Lo hai decifrato?» domandò Williams.
King annuì. «Ho un po’ di esperienza con i crittogrammi grazie agli anni passati nel Servizio segreto. Ma mi sono ricordato che l’insegnante di un liceo di Salinas, in California, anni fa riuscì intelligentemente a decifrare il codice delle lettere del killer dello Zodiaco di San Francisco. Ho un amico che lavora ancora nel Service e ha estrema familiarità con il caso. Così ho pensato che forse sarebbe riuscito ad avere libero accesso agli appunti dell’insegnante. È quello che mi ha inviato via fax: la chiave di interpretazione del codice. Che ha facilitato molto le cose.»
«Allora cosa dice?» chiese Williams, deglutendo nervosamente.
King consultò le annotazioni che aveva fatto. «Contiene errori ortografici, grammaticali e di sintassi, errori fatti apposta, credo. Proprio come faceva lo Zodiaco originale.»
L’agente Rogers guardò Williams con aria interrogativa. «Lo Zodiaco? Chi diavolo è?»
«Un famoso serial killer che operava in California» spiegò Williams. «Massacrava la gente molto prima che tu fossi nato. Non venne mai catturato.»
Un’espressione di panico apparve negli occhi azzurri da ragazzo ingenuo dell’agente Rogers.
King cominciò a leggere a voce alta.
Ormai, avete trovato la ragazza. È tutta a pezzi, dissezionata, ma non sono stato io. Dissezionata in cerca di indizi. Non ce n’è nessuno. Credetemi. L’orologio non mente. Lei è stata la prima, la numero uno. Ma ne seguiranno altri. Una caterva. Un’altra cosa. Non sono, ripeto, non sono lo Zodiaco. O la sua seconda o terza o quarta incarnazione. Sono io e basta. Non sarà così facile, sapete? Quando avrò finito, vi augurerete che fosse solo lo Zodiaco.
«Così non è ancora finita» disse Williams lentamente.
«A dire il vero, temo che sia solo l’inizio» gli fece eco King.
12
L’agente Clancy era alto e ben piantato, e si sforzava di non apparire agitato mentre fissava il vuoto tra Sylvia e Michelle.
«Sicuro di stare bene?» domandò Sylvia osservandolo attentamente. «Ci mancherebbe solo che mi svenisse davanti.»
«Sto benissimo, dottoressa» ribatté lui coraggiosamente.
Sylvia chiese: «Ha mai visto un cadavere sottoposto ad autopsia prima d’ora?».
«Naturalmente» rispose in tono brusco l’agente Clancy.
«Questi hanno estese ferite di arma da fuoco alla testa.» Mentre parlava, Sylvia scrutò anche Michelle.
Michelle inspirò a fondo. «Sono pronta.»
«Fa parte del mestiere» disse Clancy, sforzandosi di trasmetterle fiducia. «Tanto per dirla tutta, il mese prossimo il capo Williams mi manderà alla Forensic Crime Scene School.»
«Ha un programma fantastico. Imparerà tante cose. Non permetta che quello che sta per vedere la dissuada dal frequentare il corso.»
Sylvia si avvicinò a una porta d’acciaio temprato a due battenti. «Questa è quella che in gergo chiamiamo la “stanza macabra”. È per i cadaveri che hanno subito traumi estremi: incendi e roghi, esplosivi, lunghi periodi di tempo trascorsi sott’acqua. E ferite di arma da fuoco alla testa.» Sylvia aggiunse l’ultima frase scandendola con enfasi. Poi premette un pulsante sulla parete e la porta a due battenti si aprì automaticamente. Entrò nel locale e tornò fuori pochi secondi dopo spingendo un lettino con sopra una salma, lo collocò accanto alla sua postazione di lavoro e accese la lampada sovrastante.