Perlustrò con lo sguardo la salma dalla testa ai piedi, ma tenne la pistola pronta. Benché il puzzo fetido del corpo, il suo scolorimento e il raggrinzimento della pelle dimostrassero che la donna era morta da un po’ di tempo, c’era la possibilità che fosse stata abbandonata lì solo di recente e che l’assassino si aggirasse ancora nei paraggi. Michelle non aveva nessuna intenzione di fare la stessa fine della sconosciuta.
Il sole faceva brillare qualcosa sul polso della donna. Michelle si avvicinò con cautela e notò che era un orologio. Diede una fugace occhiata al proprio: erano le due e mezzo. Si abbassò sui talloni, con il naso affondato nell’ascella. Chiamò con il cellulare il 911 e spiegò con calma alla centralinista l’oggetto del ritrovamento, la località e l’ubicazione esatta. Poi chiamò Sean King.
«È riconoscibile?» le domandò il collega.
«Penso che nemmeno sua madre la riconoscerebbe, Sean.»
«Vengo subito» ribatté King. «Stai comunque in guardia. Chiunque l’abbia uccisa potrebbe ritornare ad ammirare la sua opera. Ah, un’altra cosa, Michelle…»
«Sì?»
«Non te la sentiresti di cominciare a fare il lavoro di routine?»
Michelle spense il cellulare, si appostò il più lontano possibile dal cadavere, restando comunque in vista, vigile e attenta a ogni minimo rumore. La bella giornata e la corsa per stimolare le endorfine tra le splendide colline avevano assunto tutt’a un tratto un risvolto lugubre.
Strano come un omicidio riuscisse a fare quell’effetto.
3
La piccola radura nel bosco non aveva mai visto tanta attività umana. Un’ampia zona tra gli alberi era stata delimitata con il nastro giallo della polizia. Un’équipe di medicina legale stava passando al setaccio il terreno immediatamente circostante il luogo del delitto in cerca di indizi, analizzando cose che sembravano fin troppo piccole per avere un significato. Alcuni agenti si attardavano sopra il cadavere della donna morta, mentre altri perlustravano a piedi il sottobosco circostante a caccia di oggetti e particolari di qualche interesse, soprattutto riguardanti l’entrata e l’uscita di scena dell’assassino. Un agente in uniforme aveva fotografato in dettaglio e poi ripreso con una videocamera la scena del crimine. Tutti i poliziotti indossavano maschere a filtro per proteggersi dal fetore; ciononostante, uno dopo l’altro correvano a turno nel bosco per liberarsi lo stomaco.
Tutto sembrava molto efficiente e sistematico, ma a un osservatore esperto era chiaro che il cattivo aveva riportato una vittoria netta sui buoni. Non trovavano niente di niente.
Michelle se ne stava in piedi in disparte a osservare il tutto. Aveva accanto a sé Sean King, il suo socio nella King Maxwell, la loro agenzia di investigazioni privata. King era sulla quarantina, era alto otto centimetri più di Michelle e aveva capelli corti e neri brizzolati alle tempie. Era elegante e largo di spalle, ma aveva le ginocchia rivolte all’interno e una spalla lesa anni prima da un proiettile che gli aveva perforato la scapola nel corso di un arresto finito male, mentre stava indagando su certi falsari quando era agente del Servizio segreto. Era stato anche vicecapo volontario di polizia per la cittadina di Wrightsburg, ma aveva dato le dimissioni, rinunciando solennemente alle armi da fuoco e alle forze dell’ordine per il resto dei suoi giorni.
Nella vita Sean King aveva sofferto diverse tragedie personali: una brusca e disonorevole fine della sua carriera nel Servizio segreto dopo che un candidato politico, che aveva avuto il compito di proteggere, era stato assassinato sotto i suoi occhi; un matrimonio fallito e un acrimonioso divorzio; e, più di recente, un complotto per incastrarlo in una serie di omicidi locali che aveva riportato a galla i dolorosi risvolti dei suoi ultimi giorni da agente federale. Questi eventi avevano trasformato King in un uomo estremamente cauto e sospettoso, ben poco propenso a fidarsi di chicchessia, almeno finché Michelle Maxwell non era comparsa all’orizzonte. Sebbene i loro rapporti all’inizio avessero generato non pochi attriti, ora Michelle era l’unica persona su cui poteva fare affidamento al cento per cento.
Michelle Maxwell aveva affrontato la vita in corsa sfrenata, lasciandosi alle spalle l’università a velocità sostenuta, in soli tre anni, vincendo una medaglia d’argento nel canottaggio alle Olimpiadi e diventando un agente di polizia nel nativo Tennessee prima di entrare a far parte del Servizio segreto. Come King, la sua uscita dall’agenzia federale non era stata piacevole: si era lasciata soffiare un protetto in un ingegnoso piano di rapimento. Era la prima volta che falliva in vita sua, e quella cocente sconfitta l’aveva quasi distrutta psicologicamente. Nel corso dell’indagine nel caso di sequestro di persona aveva conosciuto King. Sulle prime lo aveva trovato istintivamente antipatico. Adesso che era suo socio, lo considerava per quello che era: la miglior mente investigativa con cui avesse mai avuto modo di collaborare. E il suo più intimo amico.
Eppure i due non avrebbero potuto essere più diversi l’uno dall’altra. Mentre Michelle moriva dalla voglia di provare scariche di adrenalina ai massimi livelli e di spingere al limite il proprio corpo con attività fisiche intense, impegnative ed estenuanti, King preferiva trascorrere il suo tempo libero a caccia di vini di altissima qualità da aggiungere alla sua pregiata collezione, ad acquistare per diletto le opere di sconosciuti artisti locali, a leggere buoni libri e ad andare in motoscafo e a pesca sul lago in riva al quale sorgeva la sua casa. Era per natura un uomo molto introspettivo, quasi introverso; amava riflettere a fondo su ogni minimo particolare prima di entrare in azione. Michelle tendeva a muoversi alla velocità della luce e a lasciare dov’era tutto quello che le cadeva intorno. Questa società tra una supernova e un ghiacciaio immobile in un modo o nell’altro aveva dato buoni frutti.
«Hanno trovato i due ragazzini?» domandò King.
Michelle annuì. «Ho saputo che sono traumatizzati.»
«Traumatizzati? Come minimo avranno bisogno di terapia psicoanalitica fino alla laurea.»
Michelle aveva già fatto una deposizione dettagliata alla polizia locale, nella persona dell’ingombrante e massiccio capo Todd Williams, i cui capelli erano diventati notevolmente più bianchi dopo la prima avventura della coppia Maxwell-King a Wrightsburg. Quel giorno la sua faccia aveva un’espressione rassegnata, come se ormai i delitti e il caos più totale fossero all’ordine del giorno in quel minuscolo paesino.
Michelle restò a guardare una rossa sui trentasette o trentotto anni, flessuosa e attraente, giungere sul luogo del delitto con una cartella nera e un kit da ispezione ginecologica per accertare un’eventuale violenza sessuale. L’affascinante rossa si piazzò in ginocchio accanto al cadavere e iniziò a esaminarlo.
«È il sostituto del medico legale assegnato a questa zona» spiegò King. «Sylvia Diaz.»
«Diaz? Assomiglia più a Maureen O’Hara.»
«Suo marito era George Diaz, un chirurgo molto noto nella zona. Qualche anno fa restò ucciso in un incidente, investito da un’auto. In passato Sylvia aveva la cattedra di patologia legale alla University of Virginia. Ora fa il medico in un ambulatorio privato.»
«E il medico legale nel tempo libero. Una donna impegnata. Nessun figlio?»