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Michelle fu colta da un breve stupore perché era proprio ciò che aveva fatto ai tempi dell’università.

«Sì, mia cara» disse Harry in tono di scusa «ho fatto alcune ricerche su di lei. Spero che non le secchi.» Le batté amichevolmente sul dorso della mano e proseguì. «L’incompetenza di Junior come ladro è stabilita chiaramente. Un esempio lampante: anni fa rubò alcune batterie per auto da un’officina meccanica locale, solo che non si scomodò a toglierle dal pianale del suo camioncino la prima volta che si presentò in quella stessa officina per una riparazione. Quella piccola disattenzione gli costò sei mesi di prigione, e dimostra la sua assoluta inesperienza nel campo dei reati.»

«Be’, forse con gli anni è migliorato» commentò King.

«Non se l’è mai passata così bene come ora con i suoi appalti per lavori edili. Sua moglie guadagna bene. Si stanno costruendo una nuova casa. Perché tentare un furto con scasso a Casa Battle?»

«Forse con tutte le spese per la nuova casa avevano bisogno di un po’ di contanti extra» suggerì King. «Ma se non è stato lui, qualcuno sta tentando con ogni mezzo di far ricadere la colpa su di lui. Perché?»

Harry fu pronto a ribattere. «Stava eseguendo dei lavori a Casa Battle, perciò sarebbe stato sospettato. Il colpevole potrebbe aver sottratto i suoi attrezzi, gli scarponcini da lavoro, i pantaloni e i guanti dalla roulotte in cui Junior e la sua famiglia abitano al momento. È parcheggiata in una zona isolata, e spesso non c’è nessuno.» L’ex giudice aggiunse: «Sebbene l’impronta digitale sia l’elemento più preoccupante. Ci vorrebbe una persona esperta per falsificare una prova del genere».

«Com’è composta la sua famiglia?» domandò Michelle.

«Hanno tre figli, la più grande è sui dodici anni. Sua moglie è Lulu Oxley.»

«Lulu Oxley?» ripeté Michelle.

«Dirige l’Aphrodisiac: un club per signori distinti. Anzi, mi ha detto che ora è socia della ditta e comproprietaria di una parte del locale.»

«Lei scherza» disse Michelle. «L’Aphrodisiac?»

«Ho sentito dire che è veramente un bel locale… sa, non uno squallido bar con ballerine in topless.» Harry si affrettò ad aggiungere: «Anche se non ci sono mai stato, naturalmente».

«Confermo» dichiarò King.

Michelle gli lanciò un’occhiata stupita. «Per favore non dirmi che tu ci sei stato.»

King ebbe un attimo di esitazione, assunse un’espressione imbarazzata e poi disse: «Mi è capitato una volta sola. Alla festa di addio al celibato di un amico».

«Uh-uh» commentò Michelle.

King si sporse in avanti. «Okay, può darsi che Junior non sia la mente del furto, ma come la mettiamo se il colpo fosse stato organizzato da un altro al posto suo? Questa persona sapeva che Junior aveva libero accesso alla villa dei Battle e lo ha assoldato perché commettesse il furto. La prova fisica è schiacciante, Harry.»

Carrick non si lasciò scoraggiare. «Prove contro di lui ce ne sono. Fin troppe, in effetti!»

King non sembrava convinto. «Va bene, che cosa vuoi che facciamo?»

«Parlare con Junior. Sentire la sua versione. Far visita ai Battle.»

«D’accordo, e se per ipotesi, verificata ogni cosa, non salta fuori niente?»

«Allora parlerò io con Junior. Se insisterà a proclamarsi innocente, non avrò proprio altra scelta se non quella di procedere. Tuttavia, se dovessero offrirgli un patteggiamento ragionevole, be’, dovrò proporlo a Junior. È già stato in carcere e non ha nessun desiderio di ritornarci.»

L’ex giudice consegnò a King un fascicolo con tutti i particolari del caso. I due si strinsero la mano, poi Harry si rivolse a Michelle e strinse la mano anche a lei. «E debbo dire che finalmente conoscere questa fanciulla incantevole valeva proprio qualsiasi parcella tu possa rifilarmi.»

«Lei vuole proprio farmi arrossire, Harry.»

«Lo prenderò come un complimento.»

Lasciato Carrick nel suo studio, diretti verso l’auto, Michelle disse: «Adoro quell’uomo».

«Bene, perché conoscerlo potrebbe essere l’unica cosa positiva che trarremo da questa faccenda.» Il cellulare di King trillò. Un minuto dopo il socio di Michelle interruppe la comunicazione. «Era Todd» disse. «Andiamo.»

«Dove?» chiese Michelle.

«In un posticino veramente divertente che chiamano obitorio.»

8

La Volkswagen azzurra del 1969 risaliva traballante una delle strade di raccordo che conducevano al centro di Wrightsburg. L’uomo al volante indossava jeans e camicia bianca, con le punte del collo fermate da bottoncini, e ai piedi calzava dei mocassini. In testa portava anche un berretto da baseball con la visiera bassa sulla fronte, e occhiali da sole a lenti scurissime gli nascondevano lo sguardo. Sapeva che probabilmente era una precauzione esagerata. La maggior parte della gente era così assorbita dai propri pensieri da non essere in grado di descrivere niente di niente riguardo a chi avesse visto passare dieci secondi prima.

Dalla direzione opposta arrivò una Lexus SC. Sean King e Michelle Maxwell lo incrociarono, diretti all’obitorio, ma l’uomo non li degnò neppure di uno sguardo. Proseguì per la sua strada a bordo della Volkswagen, il cui contachilometri segnava oltre trecentomila chilometri. Il Maggiolino era uscito dalla catena di montaggio color giallo canarino. Da quando, anni prima, era stato rubato per la prima volta, era stato ridipinto varie volte e aveva cambiato come minimo dieci targhe. Strada facendo, il suo numero di telaio era stato abilmente alterato. Come una pistola con il numero di serie limato, adesso era praticamente non identificabile. Il suo proprietario andava pazzo per questo.

Anche il serial killer Theodore “Ted” Bundy aveva avuto una predilezione speciale per i Maggiolino Volkswagen durante i suoi furori omicidi, che lo avevano portato da una costa all’altra degli Stati Uniti prima di essere giustiziato. Spesso si riferiva alla quantità di “merce caricabile” che poteva trasportare a bordo del Maggiolino senza il sedile posteriore, carico che un tempo era stato vivo, umano e di sesso femminile. Bundy plaudiva anche all’incredibile distanza coperta dalla Volkswagen con un pieno di benzina. Poteva commettere un efferato omicidio e fuggire facilmente con un solo pieno.

L’uomo svoltò a destra ed entrò nel parcheggio dell’immenso centro commerciale, frequentato da gran parte della gente che abitava nella piccola ma benestante Wrightsburg. Si diceva che Bundy e altri serial killer della sua specie trascorressero ventiquattro ore al giorno a tramare i loro prossimi delitti. Doveva sembrare assai facile per uomini come lui. A quanto si diceva, Bundy aveva un quoziente intellettivo oltre 120. Be’, il Q.I. dell’uomo al volante della Volkswagen era oltre 160. Era socio del Mensa, risolveva il cruciverba del “New York Times” ogni domenica con estrema facilità; avrebbe potuto guadagnare una piccola fortuna a Passaparola rispondendo alle domande dei quiz prima ancora che Alex, il conduttore in studio, avesse finito di formularle.

Ma in verità non c’era affatto bisogno di essere un genio per dare la caccia alle vittime adatte. Ce n’erano ovunque in abbondanza. E di quei tempi era molto più facile che ai tempi di Bundy, per motivi che alla maggior parte della gente potevano non apparire così ovvi, ma che per lui erano sufficientemente chiari.