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— Tutto a posto — diceva intanto il nano, scostando la mano di John. — Fermo, per l’amor di Dio!

— Che stai facendo? — ringhiai con tono minaccioso, e mentre tentavo di alzarmi mi accorsi di avere la voce orribilmente impastata. — Lascialo stare!

All’improvviso avvertii un dolore acuto e un gran caldo. Confusamente vidi John colpire il nano con un calcio in faccia e strappargli di mano lo stiletto. Poi…

Scese una fitta nebbia di corpuscoli scintillanti d’oro e d’argento, e ogni suono scomparve. In quel pulviscolo fluttuavano minuscole moltitudini di fili invisibili che mi aderivano al cranio e mi penetravano nelle pulsanti circonvoluzioni del cervello. Riuscivo a udire il cuore che come un tamburo batteva all’impazzata coprendo col rumore i miei pensieri convulsi. Poi il battito si affievolì, e una sensazione di pace invase i miei timpani eccitati cancellando la rabbia e quel dolore acuto e penetrante al braccio.

Sentii la testa scendere sempre più giù, come se andasse scomparendo attraverso la gola e le viscere. Nei miei occhi esplosero dei colori che scintillavano in un vortice di arcobaleni, ondeggiavano e oscillavano.

Mi trovavo su una collinetta erbosa e intorno a me si estendeva una grande città articolata in modo bizzarro. Luccicava e risplendeva nella luce avvolgente del sole alla stessa stregua dei colori. Un milione di finestre ornate di tendine riflettevano la luce come tante facce di un diamante opaco.

Era tutto così bello, così meraviglioso.

Lo sgomento s’impadronì della mia mente impedendo il fluire dei pensieri. Ero completamente in balia di un impulso emozionale travolgente e mai sperimentato prima. Il mio debole cuore era dolorante per lo sforzo e cominciai a piangere.

Le pareti, miliardi di lucide pareli metalliche, vibravano al suono di una segreta melodia producendo un movimento che mai avrei immaginato potesse esistere. Tutta la gente del mondo radunata in una sola piazza a ballare e a muoversi freneticamente non avrebbe prodotto nemmeno la metà del movimento che animava la città.

Sulla città si libravano scintille luccicanti simili a fuochi d’artificio o a un enorme stormo di colibrì. La testa mi girava per l’immensità delle costruzioni e della vita e della gente. Un uomo venne in mio aiuto.

— Scusate — dissi — potete dirmi che anno è questo? — Sapevo che la data non avrebbe significato nulla per me, ma desideravo assaporarne il suono nelle orecchie. L’uomo ignorò la mia domanda. Non riuscivo a vedergli la faccia.

— Ricorda — mi sussurrò una voce fredda e vicina — che le cose che non capisci non sono necessariamente bugie.

Mi voltai di scatto. — Queen della locanda del Lupo rosso! — La donna rise fragorosamente con gioia isterica e rimpicciolì, come portata via da un paio d’ali.

— Questa città aveva tutto. Un giorno apparterrà ai gatti, ai topi e ai pipistrelli. Sarà allora che io e la mia specie raggiungeremo l’infinito.

Mi voltai verso un uomo incredibilmente vecchio che si stava trasformando in gigante. Dissi con voce stridula rivolgendomi a me stesso: — Sei Dio? Chi te l’ha detto?

— Il mio fuoco è piccolo, ma non ti consuma con il suo calore — disse dal cielo il padre Sole, poi scomparve, consegnando il mondo alla notte.

— Non aver paura, Lucciola — disse una nuova voce. — Ci penserà il nostro guerriero.

— Ma non sono la Lucciola — protestai. — Sono Matthew.

— Ti voglio bene — disse la mia ombra.

— Volete fuggire? Volete fuggire? — Era la voce del nano.

— A volte bisogna tacere.

— Alvaro!

— Vedi, per conquistare devi fare in modo che quella cosa diventi parte di te. Non possiamo dire quanto crescerà l’albero o se mai si fermerà. Il nostro tempo è finito, John.

— Non sono John, sono Matthew.

— Non fate altro che prendervi gioco di me. Non potrete mai conoscere la verità.

— Alvaro, ti prego, aiutami!

Nessuna risposta.

— Chi sei, candela?

Una debole voce. Nessuno nelle vicinanze.

— Dove stai andando?

— Chi sei?

— Tutto il mondo è felice.

— Sono la Lucciola perché la luce del sole dona vita a ogni cosa sulla Terra e io ho più vitalità di ogni altro essere, per questo emano una mia luce. Vado per la mia strada. Sono la Lucciola.

— John! John, sei qui? Mi puoi aiutare?

— Matthew! — Voce molto, molto lontana. Non riuscivo a vedere. — Svegliati! Non puoi. Non puoi. — Voce frignante.

— Sei felice? — Un urlo nel mio orecchio. La mia voce.

— Felice?

— Felice?

Gridai in preda all’angoscia. Improvvisamente l’aria divenne immobile e vuota. Tutte quelle voci immateriali erano state spazzate via. C’era un silenzio profondo, cimiteriale. Guardai in alto. Non vi era niente laggiù (dove?), perciò mi alzai. Nessuno in vista. Guardai la grande porta spalancata lì vicino.

C’era scritto a caratteri marcati USCITA.

Affascinato, rimasi a fissare l’apertura buia. Mi avvicinai e guardai nell’oscurità oltre la porta, ben attento a non oltrepassare la soglia.

Con esitazione allungai un piede.

Una voce severa disse: — Non potete passare di lì, signore. È a senso unico.

— Voglio uscire.

— Spiacente, signore. Non vedete che sulla porta c’è scritto chiaramente USCITA?

— Ma è quello che voglio fare. Ci fu silenzio.

— Signore? — disse educatamente la porta.

— Sì? — risposi speranzoso.

— Chiudete gentilmente la porta. Vi prego di notare che USCITA è dalla parte interna. Non potete uscire da qui.

— Ma voglio tornare indietro.

— Non c’è luce là.

— Emano la mia.

— Mi spiace, signore. È impossibile.

— Voglio fuggire.

— Non ci proverei se fossi in voi, signore.

— E così tu non ci proveresti. Che me ne importa?

— Niente, signore, è questo il problema. Fuggire non serve a niente, signore.

— Sono Matthew, non John.

— Non importa quale sia o non sia il vostro nome, signore. — Ancora silenzio. Provai a spingere la porta ma era chiusa. Questo non era giusto.

Cercai di ricordare se avevo visto che si apriva, ma non vi riuscii, né riuscii a ricordare se si era chiusa.

Mi sedetti e piansi silenziosamente. La parola USCITA risplendeva muta. Mentre le lacrime mi velavano la vista, gli occhi mi si aprirono e una luce di lanterna squarciò l’oscurità.

— Matthew — disse John con apprensione. — Stai bene?

— Bene, bene — borbottò in sottofondo il nano, con la voce roca. — Com’è stato? Soddisfatto, eh? Ci scommetto. Ti è piaciuto?

— Mi hai ingannato! Non era vero, non c’era niente di vero. È stata tutta una frode. Ti ucciderò! — Mi resi conto che la voce era la mia.

John si sedette accanto a me e mi afferrò per le spalle. — Matthew, è tutto a posto. Era una droga. Non è stato fatto del male a nessuno. Ho visto gli altri, una cinquantina di persone. Tutte sognavano cose piacevoli. Non c’è niente di cui preoccuparsi.

Sul mio braccio intorpidito, là clave era entrato l’ago, c’era il segno di una puntura.

— È stato bello? — farfugliò il nano. — Non fa male. È solo una droga. È innocua. Piace a tutti. È stato bello? Rende la gente felice. È stato bello? — Le parole gli scaturivano dalla bocca come un torrente gorgogliante.

— Sta’ zitto o ti taglio la gola! — disse John in un sibilo.

— Una fuga — mormorai. — E che fuga!

— Va’ a dormire ora. Io terrò d’occhio questo qui. Se gli hai fatto del male — lo sentii dire al nano — ti uccido.

— No — piagnucolò impaurita la creatura. — Li salvo, non faccio loro del male. Da loro stessi, capisci? Dalla loro debolezza e dalla loro inutilità. Gliene do un po’ per farli contenti. Perché non vuoi essere felice? Perché non ne vuoi?