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— No — dissi. — Vorrà ripartire nell’istante in cui si fermerà. Niente riposo, nessuna possibilità di imparare e capire. È sempre stato così.

Leon appoggiò il mortaio con un colpo secco e si sfilò gli stretti guanti mentre con gli occhi già cercava l’apparecchiatura per la distillazione. Volevo ancora parlare, trascorrere quelle ultime ore nelle rassicuranti certezze delle mie conoscenze, ma Leon era occupato a distillare l’ultima goccia di droga, la goccia con cui probabilmente avremo avuto la visione dell’Uomo Futuro. Non voleva più essere disturbato.

John, Joaz e Xavier si preparavano in privato. Non sapevo dove trovare Alvaro e quelle erano le uniche persone che conoscevo abbastanza bene per poter parlare loro della partenza, del più importante dei miei giorni.

Così ritornai in giardino e vagai per i chiostri, assaporando l’aria fragrante, godendo della luce del sole come se fosse stata l’ultima volta.

Mi inginocchiai e tastai il terreno, strappai dell’erba e la toccai con la punta della lingua. Ascoltai il ronzio delle mosche e il verso delle cavallette. Solo poche ore prima quei suoni mi erano sembrati irritanti, mentre ora volevo ascoltarli fino a essere certo di ricordarli perfettamente.

Lasciai gli edifici del monastero e vagai per i sentieri della collina, immerso in un mondo che nei trentaquattro anni precedenti avevo considerato solo distrattamente.

L’ultima, lunga giornata.

Non avevo dubbi: mi stavo comportando come uno sciocco. Il domani avrebbe contenuto le stesse cose dell’oggi, sennonché non sarebbe stato il domani ma un insieme di centinaia di domani, separati da un lasso di tempo di cui non conoscevo l’estensione.

“A quale velocità si viaggia nel tempo?” mi chiesi.

“Si può correre o bighellonare?”

“Come ci ritroviamo se siamo separati?”

“Il movimento nello spazio è legato al movimento nel tempo o posso restarmene seduto a guardare il mondo che cambia intorno a me?”

Era tutto nuovo, troppo nuovo, e io ero così vecchio, radicato nelle mie abitudini e soddisfatto della mia esistenza.

Non come John, un ventenne ancora pieno di vita.

Non volevo andare. Ma dovevo farlo.

14. Pellegrinaggio

Fu un inizio di proporzioni cosmiche, grandioso e splendido. Ma ero stanco di questi continui inizi e del timore reverenziale per il cosmo. Ne avevo già avuto esperienza nei sogni indotti dalla droga che pervadeva il mio corpo e il mio sangue.

Allora ero sicuro che ciò che stavamo cercando fosse un’illusione. Volevamo delle risposte, cercavamo conclusioni, coronamenti. Ci aspettavamo che ogni cosa andasse a posto, come tessera di mosaico, per dare ordine e precisione a ciò che conoscevamo e credevamo.

Ma dopo quell’inizio, l’inizio del tempo stesso, ero certo che da questo caos non poteva scaturire alcuna chiarezza, né ordine o coerenza.

Sulle prime la successione delle immagini mi accecò. Mi ci volle del tempo per adeguarmi al Tempo, per far sì che i miei sensi fronteggiassero quel nuovo flusso che li aveva aggrediti. Lentamente mi resi conto che quanto stavo vedendo non era affatto il futuro ma piuttosto il passato. Milioni di anni passavano in un solo istante a una velocità incredibile, le pagine scorrevano e sfarfallavano.

La terra sotto i miei piedi fremeva, si muoveva e cambiava forma. Il giorno e la notte si susseguivano veloci e solo il debole tremolio delle immagini lasciava intendere che il giorno non era eterno. La traiettoria del sole era un arcobaleno lucente che andava da un orizzonte all’altro muovendosi rapidamente avanti e indietro nel cielo mentre le stagioni finivano ancor prima di cominciare. La sola sensazione fisica di cui avevo consapevolezza era un vento freddo e pungente che sembrava attraversarmi il corpo. Non era un vento reale, ma non so dire cosa fosse. Non vi era il minimo segno della presenza di John, Joaz o Xavier.

Le prime forme di vita cominciarono ad apparire, ma naturalmente non potei vederle. Mi rammaricavo del fatto che un tale avvenimento mi passasse accanto lasciandomi immaginare ciò che accadeva senza però poterlo osservare. Anche a quel ritmo febbrile il lavorio durò ben più dello spazio di un istante, ma tutto quello che riuscii a vedere in lontananza fu solo dell’acqua torbida. Intorno a me c’era una desolata distesa di roccia senza vita ma in movimento, perennemente tremante e instabile. Osservai le montagne prender forma per poi essere nuovamente erose dall’impeto dei secoli. Ma non potevo vedere le molecole formarsi e riformarsi, crescere e moltiplicarsi, minuscoli colloidi impalpabili che trovavano segreti dell’immortalità e della metamorfosi.

Aspettai da solo, o almeno così mi sembrò.

Vidi il mondo così come avrebbe potuto vederlo un dio, ma non ero dio perché ero impotente, e nessun dio può essere impotente se è destinato ad avere un significato al di là di se stesso.

Non avevo altra alternativa se non quella di imparare l’umiltà e rendermi conto che, anche se il Fato non era una forza attiva e vitale, costituiva uno stato mentale che concepiva accuratamente il modo in cui si presentava la realtà. In pochi secondi mi fu trasmessa una vasta gamma di esperienze, ma non rinunciai a quella transitorietà che poteva conferire un significato all’ambiente intorno a me. Ciò che vedevo significava qualcosa, anche se in pratica non vedevo quasi nulla.

Più tardi, non so quanto più tardi, riuscii finalmente a individuare degli esseri viventi. Mi imbattei nei fragili organismi trasparenti che vivevano nei ruscelli e negli stagni, e che talvolta mi scorrevano accanto o si formavano intorno a me. Spesso ebbi l’impressione di essere sull’acqua e non sulla terra, altre volte, quando il suolo si muoveva, avevo la sensazione di fluttuare a mezz’aria. Ma la mia posizione non mi sembrò mai precaria. Io restavo fermo e il tempo mi passava accanto.

Poi comparvero delle creature corazzate, alcune con duri gusci a spirale, altre con gusci appuntiti o spesse scaglie dentellate. Ma in un certo qual modo avevano ancora un aspetto fragile, come se le parti vitali si nascondessero in un bozzolo al minimo disturbo.

Non mi abituai mai completamente alla presenza della vita e di tutto ciò che essa implicava, ovvero un flusso continuo, un incessante cambiamento. Inizialmente vidi la vita come una corsa precipitosa, un inesauribile caos di competizione, speranza, estinzione. Ma ben presto percepii uno schema differente, un’immagine profonda e radicata che andava al di là della turbolenza superficiale.

Vedevo in quella vita qualcosa di calmo e pacato, qualcosa che sapeva dove stava andando e avanzava con circospezione, un conquistatore sereno che avanzava con una strategia sicura, trascinando nella propria scia svariate escrezioni. Un unico filo, però in qualche modo parte e funzione del tutto. La corrente primaria dell’evoluzione.

Ormai la terraferma era stata invasa e i mari completamente conquistati. Gli organismi primitivi uscivano tranquillamente e senza fretta da quel confortevole grembo per approdare al duro mondo dell’aria e della roccia. E là dove andavano le piante, seguivano gli animali. Appena un modo di vita era pronto per loro sulla terraferma, essi cominciavano a lasciare il mare.

Tuttavia per molto tempo la fucina della vita rimase il mare. La vita sulla terraferma era troppo ardua e troppo difficile perché le creature riuscissero ad adattarsi subito. Per un lungo periodo, che a me sembrò durare un minuto o poco più, ogni nuovo essere uscì dal mare. Il sistema di vita terrestre cominciò a muoversi in armonia e nella stessa direzione precisa solo dopo l’installazione di un migliaio di componenti di specie diverse. I nematodi uscirono dal mare, così come gli artropodi e infine i pesci. Gli osteolepidi privi di mandibola e muniti di esoscheletro salirono faticosamente sulla terraferma trasferendo la corrente primaria dell’evoluzione in questo nuovo habitat.