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E così di seguito, procedendo con una precisione sempre evidente e visibile, mai confusa o nascosta.

Ormai mi ero completamente adeguato a questo nuovo modo di percepire il mondo. Penso che fossero passate solo quattro o cinque ore di tempo soggettivo. Ora non avevo più difficoltà a vedere cose, la cui durata media della vita poteva essere misurata solo in nanosecondi, costituirsi in un’immagine collettiva. Vedevo più con la mente che con gli occhi, ma entrambi registravano gli eventi e si predisponevano alla contemplazione.

Giunsi a comprendere intimamente il senso della vita, ma non tentai di divinizzarla o attribuirle qualità mistiche o magiche. Parlo di “senso della vita” perché si muoveva in una direzione ben precisa, aveva uno scopo, non si limitava a esistere. Costituiva un vero processo e non una proprietà. Lo scopo era l’ordine, la conquista dell’intero universo. L’intento era chiaramente quello di sovvertire il principio entropico e portare ordine nell’intera esistenza.

Grandi foreste di felci e di calamitacee consumavano il terreno spoglio, trasformando i raggi di sole in energia che generava nuova vita nell’aria e nell’acqua. Le lumache di terra e gli insetti erano ovunque ma, per quel che riguardava la linea principale, era il giorno dei rettili, che rifluirono subito in varie direzioni: alcuni tornarono al mare, come tartarughe e ittiosauri, altri salirono sugli alberi, come l’archeopterige, il primo rettile-uccello. In quanto a dimensioni, i dinosauri erano impressionanti, ma non facevano parte della linea principale. Quando raggiunsero il pieno sviluppo, già era sceso il crepuscolo dell’epoca dei rettili. Stavano arrivando i mammiferi. I rettili avevano inventato l’uovo protetto da un guscio solido, ma il ricordo a cui tenevo maggiormente era quello legato al brontosauro. Non si può immaginare la commozione nel vedere la disperata maestosità dell’animale, sconcertato dalla sua stessa stazza e dalla sua debolezza, durante la breve vita della sua specie destinata a estinguersi.

I mammiferi sembravano animali nocivi, mentre erano ancora in vita i loro parenti, ma i piccoli insettivori furono i mansueti che ereditarono la Terra. Ormai mancava solo un soffio alla venuta dell’uomo. Virtualmente la sequenza era completa. Appena me ne resi conto, provai un brivido di sollievo. Poiché ormai mancavano solo pochi secondi, tentai nuovamente di prevedere ciò che sarebbe avvenuto invece di esaminare ciò che era stato.

Mentre l’uintaterio e il megaterio mi passavano accanto con andatura impettita e maestosa, mi rilassai per la prima volta da quando avevo bevuto l’elisir. Giunsero i cavalli, e i lupi e gli ippopotami, ma mi chiedevo se non fosse tutto un sogno, se Leon e l’uomo che viaggiava nel tempo non si fossero sbagliati, se dopotutto si potesse veramente tornare nel passato.

Cominciai a cercare di nuovo la linea principale, l’Uomo e gli antenati dell’Uomo. Vidi il mastodonte, il rinoceronte lanoso e la tigre dai denti a sciabola.

Ma non vidi l’Uomo. Era insignificante, si nascondeva tra gli alberi. Se avessi davvero guardato con attenzione avrei potuto scorgerlo, ma c’erano troppe cose da vedere e la mia attenzione veniva continuamente sviata.

Mi balenò in testa che, se John fosse stato lì, lui sì che avrebbe visto l’Uomo. Lui non si sarebbe fatto distrarre.

Poi tutto finì. L’intera storia passò in una manciata di microsecondi. Penso di poter dire che la vidi, ma solo come immagine fuggevole, la più effimera delle illusioni.

John mi toccò la spalla.

— Credevo di sognare — dissi.

— No — intervenne Joaz. — Non era un sogno. Era una visione, una visione reale. Lo abbiamo visto davvero con i nostri occhi. — Joaz era alto e spettrale, aveva occhi scuri e una voce esile e acuta.

— Ma possiamo solo andare avanti nel tempo — insistetti.

— Non possiamo andare nel passato — disse John, e mi accorsi che c’era del rammarico nella sua voce per quell’Età dell’Oro che era scivolata via in un istante senza che avessimo la possibilità di conoscerla meglio. — Però lo abbiamo visto, e ora è dietro di noi, immobile e irraggiungibile. Ma c’è, è reale. Potevamo vederlo, e così è stato. Ma c’era troppo da vedere, e troppo poco tempo.

— Dove siamo? — si lamentò Xavier. Xavier era basso e tarchiato, e aveva costantemente un tremito nella voce, ma non per paura. Xavier era soprattutto un uomo buono: uno che piangeva per i problemi altrui e rimproverava se stesso per i propri.

Mi guardai attorno. Era buio ma c’erano le stelle, le sagge, immobili stelle. Eravamo sulla stessa collina, i nostri sandali calpestavano la stessa erba. Scrutai nell’oscurità alla ricerca del monastero.

— Guardale — disse Xavier indicando davanti a sé. — È ancora lì, non ci siamo mossi neanche un po’. La droga non ha fatto effetto.

— Non è lo stesso — disse John pacatamente. Era fiducioso e stava assumendo il comando della missione. Dopotutto era la sua ricerca, la sua missione. — È disabitato, Xavier. Forse è anche in rovina. Non ci sono luci, Fratello. Non ci sono luci.

— Ma non lo avrebbero mai abbandonato! — protestò Xavier.

— Neppure in cent’anni — disse Joaz, ambiguo.

Restammo in contemplazione. Avevamo viaggiato nel tempo. Il passato era trascorso, per sempre. Vi fu un lungo silenzio.

Poi John — non “poteva” che essere lui — scoppiò a ridere. — Siamo qui. Stiamo viaggiando nel tempo. Avanti Matthew, prendimi per mano. Prendiamoci tutti per mano e andiamo. Andiamo!

In tanti anni era la prima volta che lo vedevo così esultante, così pieno di gioia. Ci diede una gomitata e ci spinse tutti e tre. Lo seguimmo, non avendo più la forza di volontà per opporre resistenza.

Marciammo.

Continuammo a marciare e il tempo ci scorreva accanto sempre più veloce, sempre più veloce.

15. La danza

Sostammo ai piedi di una collina lunga e bassa. Eravamo molto stanchi. Avevamo camminato troppo pensando, insensatamente, che forse, poiché adesso controllavamo il passare del tempo, non avremmo più avuto bisogno di dormire o riposare. Il giorno e la notte si susseguivano a nostro piacimento, ma l’orologio interno del nostro metabolismo continuava a mantenere un orario perfetto.

L’erba era scura e ruvida quella sera, il tempo umido e nebbioso. Il paesaggio appariva cupo, quasi deprimente, come un acquerello dipinto con colori pallidi e indefiniti.

— Questo non è un posto dove passare la notte — ci fece notare Joaz. — Dovremo andare avanti almeno un altro po’.

— Non riesco più a fare un passo — disse Xavier, deciso. — Qui ci siamo fermati e qui intendo restare per almeno dieci minuti.

— Domani potrebbe andare molto meglio e non dev’essere lontano — intervenni.

— Sei proprio sicuro di raggiungere il domani? — domandò Xavier. — In quest’ultima ora ho cercato spesso di fermarmi ogniqualvolta vedevo qualcosa per cui valeva la pena farlo, ma la mia mente non è ancora così raffinata. Forse con la pratica riusciremo a scegliere i luoghi con esattezza. Ma adesso, in questo momento, ho bisogno di riposo.

John aveva ascoltato la conversazione in silenzio, con grande serietà; non disse niente, accontentandosi di aspettare.

— Siamo legati in qualche modo gli uni agli altri — disse Joaz. — Ecco perché abbiamo difficoltà a fermarci in un dato posto. Dobbiamo concentrarci tutti sullo stesso luogo.

— In che modo siamo legati gli uni agli altri? — domandai.

Joaz si strinse nelle spalle. — Non ne sono sicuro, ma suppongo attraverso uno stato mentale. Ci consideriamo come un gruppo e quindi restiamo insieme. In fin dei conti il viaggio nel tempo è solo una questione di percezione personale. Quello che pensiamo condiziona, se non ciò che vediamo, perlomeno il modo in cui vediamo.