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I colori presero a fluttuare sulla sua sagoma prostrata, poi si dispersero lentamente, uno per uno, spegnendosi. Abbandonarono anche l’uomo. Quando ritornò il buio, l’uomo andò incontro alla donna per aiutarla. Nessuno dei due sembrava ferito. Li persi di vista nell’oscurità proprio mentre l’uomo si chinava per sollevare la compagna.

Allungai la mano intimorito per toccare John. La sua mano incontrò la mia e la strinse con forza.

— Cos’è accaduto? — domandai.

— Si sono sfamate, credo.

— Con cosa, col sangue?

— Non penso. — La sua voce era strana e distante. Riuscivo a malapena a vederlo.

— Subito mi ha fatto male guardarle — confessai.

— Non era dolore — disse. — Si stavano impossessando della tua mente, ecco tutto. Ne stavano solo prendendo possesso.

— Ma perché?

— Non lo so.

— Come fai a sapere così tanto senza sapere niente? — chiesi, irritato dalla sua calma.

— Non lo so — rispose di nuovo senza che la sua voce tradisse alcuna emozione.

— Joaz! — chiamai. — Cos’è accaduto? Siamo diventati tutti matti?

— No — disse. — Mantieni il controllo, Matthew. Penso che sia la droga.

— Vuoi dire che si tratta di allucinazioni?

— Oh, no. È reale. La droga sta affinando la nostra percezione e la sta estendendo lungo la linea del tempo. Tutti noi riusciamo a vedere di più, a capire di più. Disponiamo di una percezione più profonda, non solo più estesa. Forse abbiamo anche più forza.

— Ma perché voi riuscite a vedere e io no? — volli sapere.

— Ci stiamo adattando più velocemente. Ci vuole tempo, Matthew.

Scossi la testa. Il buio intorno a me cominciava di nuovo a spaventarmi. — Andiamocene — dissi. — Alla luce del giorno. Ovunque, ma lontano da qui.

— D’accordo — disse John, e continuò a tenermi la mano, mentre ci lasciavamo alle spalle l’oscurità e io incominciavo di nuovo a vedere.

Ma non volevo guardare, mi bastava sapere che potevo farlo. Ero molto stanco e volevo solo dormire. Mi sentivo la testa strana e pesante. Mi resi conto che mi appoggiavo a John e che mi sorreggeva con entrambe le braccia.

— Va tutto bene — disse. — È solo questione di tempo. Col tempo capirai. È una questione di adattamento. Presto dormiremo.

Non ricordo di essere andato a dormire. Non ricordo di aver fatto un’altra sosta, ma ricordo che, quando mi svegliai, ancora non sapevo cos’era successo all’uomo e alla donna, o a me, sulla collina.

Incominciavo solo a rendermi conto che il futuro era un luogo a noi estraneo. Un posto strano e orribile che avrebbe potuto dissolversi in un caos del tutto al di là della mia comprensione.

Ero consumato dalla paura. Ma c’era John accanto a me, John che era pronto e ansioso di conoscere tutto ciò che era nuovo, che voleva scoprire mondi alieni e nuovi concetti.

Avevo sempre avuto bisogno di John.

E, sapevo, ne avrei avuto bisogno sempre.

16. L’unicorno

La vegetazione si estendeva intorno a noi in un fitto intrico verde e marrone. Rami snelli e flessuosi ricadevano dai tronchi degli alberi sfiorando il terreno, si attorcigliavano formando archi aerei, intrecci e alveari di un verde cupo. L’erba cresceva ovunque non vi fossero i tronchi, raggiungeva i rami degli alberi e avvolgeva le foglie più basse.

Ci fermammo in una piccola radura ricoperta di muschio verde scuro e di felci simili a ventagli che spuntavano dal terreno come foglie gigantesche. Sotto il muschio vi erano pietre piatte e traballanti che spiegavano l’assenza di erba e di alberi. Tra le pietre spuntavano fitte famiglie di funghi e altri saprofiti erano abbarbicati ad alberi morti e moribondi.

Minuscole goccioline di umidità si trascinavano faticosamente lungo i viticci, mentre piccoli rivoli d’acqua scorrevano tra le fessure della corteccia verso il terreno fradicio. Tutta la foresta era stata recentemente inzuppata da una pioggia abbondante.

Non ci sedemmo, ma ci fermammo per guardarci attorno.

— Un tempo qui c’era una costruzione — commentò Xavier.

— Ne resta proprio poco — disse Joaz. — Probabilmente era già ricoperta di vegetazione anche nel nostro tempo.

— Quanto tempo fa? — domandai. — Dove pensate che siamo arrivati?

— Non lo so — rispose Joaz.

— Ha importanza? — domandò John.

— Mi sarebbe piaciuto saperlo — dissi, imbarazzato. Sembrava che loro si fossero adattati in fretta… persino il lento, pacioso Xavier. Vedevano più di me, avevano in mente uno schema già pronto nel quale collocavano ogni nuova esperienza. Non capivo cosa mi mancava, ma sapevo che loro tre erano in possesso di una qualche facoltà che finora non avevo scoperto. Niente li sorprendeva. Niente li spaventava. Non facevano domande, però avevano ben poche risposte. Pensavo che la visione del passato mi avesse insegnato molto, ma evidentemente non abbastanza.

Certo restava il fatto che loro tre avevano sentito il bisogno di intraprendere questa missione. Faceva parte di loro molto prima che la iniziassero. Ma io non ne sentivo il bisogno, non era la mia missione. Ero un passeggero. Forse non avevo il diritto di comprendere.

— Non ci sono insetti — dissi.

— È bagnato — mi fece notare Xavier. — Non ci si aspetta di vederne.

— Non ce ne sono nemmeno sui tronchi. L’aria è limpida, ma non vi è nulla che vola.

— Be’ — disse Xavier con una certa logica — dubito che gli insetti si siano estinti dall’ultima volta che ci siamo fermati.

Continuai la mia ispezione. John parlava con Joaz a bassa voce. Avrei potuto sentire quello che stavano dicendo, se avessi voluto, ma non me ne diedi la pena.

Nonostante l’umidità e la monotonia dei colori, il posto mi parve molto bello. Veli di nebbiolina salivano dal suolo verso l’aria calda offuscando la cortina di verde e mitigandone l’intensità del colore. A parte il debole rumore dell’acqua che gocciolava sull’erba c’era un gran silenzio. Non vi era vento a far frusciare i rami né animali a scuoterli.

Eppure qualcosa si muoveva.

Di sfuggita, con la coda dell’occhio, intravidi una sagoma, ma fu sufficiente a farmi cambiar strada per inseguirla. Non sapevo cosa potesse muoversi così silenziosamente nel folto della vegetazione, ma ero certo che fosse reale e non uno scherzo delle ombre.

Avvicinandomi maldestramente al luogo dove avevo visto il movimento, spaventai la creatura che, prima di fuggire, si fermò un istante a guardarmi.

Era un animale piccolo e snello, simile a un cavallo ma delle dimensioni di una lepre. Sul dorso la pelliccia era color bronzo, mentre sul ventre sfumava nel bianco dell’ermellino. L’animale aveva una lunga criniera argentata e luminosi occhi color rame. La coda ondeggiava come una fiamma d’argento, oscillando e sventolando, mentre l’animale si allontanava velocemente tra i rami intricati senza muovere nemmeno una foglia.

Lo vidi per un istante mentre saltava nell’impenetrabile vegetazione, ma di una cosa ero sicuro: tra le orecchie appuntite della creatura c’era un corno perlaceo, sottile e ritorto, che risplendeva riflettendo sulla sua superficie lucida e levigata la luce del sole.

L’animale era un unicorno. Ma se quello era l’unicorno delle leggende che avevo sentito in gioventù, allora i miti avevano travisato tutta la realtà tramandandone una pallida versione.

Mi allontanai con riluttanza, sapendo che non potevo inseguirlo, e ritornai dai miei compagni.

— Ho visto un unicorno — dissi, incerto. Non sapevo se aspettarmi canzonature o totale indifferenza.

— Dov’era? — domandò John.

— Nella foresta.

— Sei sicuro? — chiese da parte sua Joaz.

— Sono sicuro.

Scrutarono gli alberi intorno a noi. Non si udivano rumori, niente si muoveva. Mi rendevo conto che Joaz e Xavier avevano assunto una posizione neutra: non erano scettici ma allo stesso tempo non mi credevano. Solo John era convinto che avessi visto davvero l’unicorno. Mi conosceva abbastanza bene da saper interpretare la mia voce.

— Come può una leggenda del passato diventare una realtà del futuro? — domandai.

John mi scrutò attentamente. — Qui, tu sei diverso — disse. — Al monastero, tra le montagne, e anche molto prima di allora, non facevi mai domande. Conoscevi già tutte le risposte che ti interessavano. Qui ti guardi continuamente intorno alla ricerca di qualcosa di nuovo, sempre in cerca di spiegazioni.

Era vero. Mi piaceva sapere dov’ero e cosa stavo facendo. Mi ero sentito a mio agio nel mio tempo, avevo conosciuto il mondo e ciò che conteneva. Non avevo mai dovuto sorprendermi né cambiare idee. Non mi ero mai sentito come ora, fin da quando ero bambino.

— Non è una risposta — gli feci notare.

— Ci sono molteplici realtà, Matthew — disse Joaz. — Forse nel tempo tutti i sogni possono avverarsi.

— Ma non c’è stato il tempo! — dissi. — Negli ultimi giorni ci siamo appena mossi, rispetto a quello che abbiamo visto nelle prime ore, quando il passato ci scorreva accanto. E anche a quella velocità la vita si evolveva lentamente.

— La vita — disse Joaz — ma non l’Uomo. La vita dell’Uomo era invisibile. Matthew, non sappiamo se le ere che abbiamo visto in poche ore sono trascorse più velocemente dei minuti che adesso pensiamo stiano scorrendo a una velocità normale. Il tempo non procede in modo costante, non te ne sei accorto? Dell’“adesso” non possiamo dire a quale distanza sia rispetto a quando siamo partiti, né che l’inizio del tempo sia molto più oltre. Il tempo non è distanza, Matthew. Non è una dimensione, una misura, una quantità fissa. È una percezione del tutto nuova. Non riesci a usare gli occhi e vederlo?

— No — confessai. — Non ne sono capace. Non ci riesco affatto. Non vedo altro che confusione e sconcerto.

— Povero Matthew — intervenne John. — Osservare con tanto impegno e vedere così poco.

Sorrise ironicamente. A un tratto mi sentii un bambino e lui era l’adulto che mi sorrideva dall’alto della sua esperienza e della sua sicurezza. Era così che gli apparivo, quand’era più giovane?

— Vorrei non essere mai venuto — dissi.

Era un’affermazione sacrilega che rattristò subito John. Sapevo che si sentiva responsabile della mia presenza. Sapevo anche che mi voleva lì, al suo fianco, per assistere alla realizzazione del suo sogno. Se mai il suo sogno si fosse realizzato.

— Mi dispiace — dissi. — Non volevo dirlo, ma è tutto così strano. Siete cambiati moltissimo, e ora siete molto più avanti di me. Non riuscirò mai a capire. Sono fuori posto. Non sono nel mio tipo di mondo. Sono un peso per voi.

— No — disse John. — Non un peso, ma una fonte di forza. Abbiamo tutti bisogno di qualcuno a cui appoggiarci, Matthew. Quanto più abbiamo delle necessità tanto più abbiamo bisogno dell’appoggio di qualcuno. Questa ricerca non può avere successo senza di te. Forse, alla fine, avremo bisogno dei tuoi occhi per sapere che ci siamo riusciti, e non dei nostri. Vediamo cose diverse, ma questo significa solo che insieme vediamo di più.

Era sincero. Avrei voluto potergli credere, ma sapevo che da lui avevo sempre tratto la mia forza. Era possibile che due persone traessero ciò di cui avevano bisogno l’una dall’altra? Da dove veniva tutta questa forza?

Non sapevo rispondere, non era il tipo di problemi per me. Non ero un pensatore, non nel modo in cui lo erano Joaz o Alvaro. Ero un uomo normale e tranquillo che viveva la sua vita, invece di cercarla.

Un tempo era John a essere perso nel mio mondo. Ora ero io a essere perso nel suo.