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E il nuovo mondo era presieduto dai contorni sfumati del sole e della luna e da una mobile fugacità. Dalla loro unione nasceva lo splendore che la loro presenza rischiarava. Lì noi eravamo stranieri, non avevamo nulla a che fare con quel mondo. Per noi in pratica non esisteva.

— Non è il nostro mondo, Joaz — disse Xavier. — Non abbiamo alcun diritto qui.

— Dobbiamo proseguire — disse il frate, testardo. All’improvviso mi accorsi che anche Joaz era molto, molto stanco.

— Joaz, credi veramente che ce ne andremo mai da qui? — domandò Xavier con rassegnazione.

John, la guida, si voltò senza smettere di camminare e disse: — Dobbiamo avere fede.

E forse fu proprio la fede a condurci fuori da quel territorio e in un’altra epoca. Non ne sono sicuro.

18. La città della notte perenne

Incontrammo Raon il Reietto in una città dove, come lui stesso disse, era sempre notte. Era un’antica città, ma ormai eravamo nel più antico dei mondi, dove tutto era segnato dalle carezze di migliaia di anni. Non solo ciò che era stato costruito dall’Uomo, ma anche quello che aveva creato la natura.

Vivendo in un presente in perenne movimento avevo individuato nel tempo la più importante di tutte le cause. Il flusso del tempo, credevo, determinava cambiamenti, invecchiava tutte le cose e le faceva evolvere. Adesso ero incline a considerare il tempo come l’ultimo di tutti gli effetti: una classificazione arbitraria imposta all’incessante e casuale flusso degli eventi dalla pochezza della comprensione umana e dalla mancanza di prospettiva.

C’era ben altro che il semplice ticchettio di un orologio, nei secoli vissuti dalla città dove la notte era eterna.

Raon ci raccontò la storia della città. Parlava in prima persona, ma anche come se raccontasse un mito… qualcosa di non reale e tanto meno parte del suo passato.

— La vedevo cavalcare giù per il pendio ogni mattina — ci raccontò — quando le stelle più luminose erano ancora visibili nel cielo d’occidente e solo le vette dei monti erano illuminate dal sole. Montava un cavallo bianchissimo seduta su una sella dorata di cuoio levigato, e anche le sue vesti erano gialle e splendenti.

“Mentre cavalcava, la seguivo dal cielo, con le ali semichiuse per sfruttare il sostegno dell’aria e mantenermi alla sua andatura. La seguivo ogni giorno, dal momento in cui compariva fino a quando lasciava la valle, molto oltre questa città.

“Guardava in alto un paio di volte e sorrideva alla mia veglia solitaria, salutandomi con gli occhi. Allora planavo sulla brezza e restavo sospeso accanto al suo cavallo, parlandole della città, della valle e del mio amore per lei. E all’improvviso, a est, il sole faceva capolino all’orizzonte, indugiando mentre noi attraversavamo il mondo.

“Non parlava mai, mi sorrideva solamente. Le sue labbra erano lisce e morbide, il viso pallido, gli occhi azzurri. Ogni suo sorriso m’induceva a parlare in fretta e le mie parole mi uscivano di bocca con tale velocità che non sapevo più che cosa dicessi.

“Le raccontai della mia vita, quella di Raon il Reietto che volava nel cielo silenzioso della valle sopra le case degli uomini e sotto i rifugi delle aquile, perché uomini e aquile erano miei nemici. Le confidai cosa pensavo e cosa provavo quando mi lasciavo andare nell’aria carica di pioggia o quando volteggiavo sotto le nuvole luminose nelle notti di plenilunio. Le dissi che non ero né uomo né uccello, ma qualcosa di diverso. Non nuovo, perché la mia specie era sulla Terra sin dalla comparsa dell’uomo e degli uccelli.

“E lei sorrideva, come se capisse.

“Così le dissi che l’amavo, che era la donna più bella del mondo, che era una dea. La mia dea dell’alba, così la chiamai, poiché quello era il momento in cui compariva cavalcando sulla collina.

“A volte, alla fine della giornata, quando mi nascondevo dalla temibile umanità e dalle grandi aquile di montagna, mi domandavo se anche lei fosse una reietta a causa della sua bellezza. Per quale altro motivo cavalcava solo quando il sole raggiungeva la sommità della collina?

“Poi arrivarono i soldati e fui costretto a essere sempre guardingo, a trovare nuovi rifugi e a nascondermi in modo più astuto quando dormivo. Vivevo più vicino alle aquile, perché quelle erano meno pericolose degli uomini. I soldati percorsero la valle in lungo e in largo, mentre il sole riluceva sulle loro armature e dai loro occhi sgorgava solo odio. Consumarono le ricchezze della città e posero delle sentinelle a guardia del loro sonno.

“Inevitabilmente scoprirono la mia dea e le sue cavalcate solitarie alle prime luci del mattino. Negli attimi in cui riuscivo furtivamente a volarle accanto cercai di metterla in guardia.

“Non parole d’amore, ma di avvertimento. Però alle mie parole lei rispondeva ugualmente solo con il suo bel sorriso.

“Un giorno i soldati si appostarono per aspettarla, acquattati in silenzio tra i cespugli sul ciglio della strada, appena fuori della città. Sapevo che l’avrebbero fatto. Tenevano gli occhi fissi sulla sommità della collina o si guardavano con sicumera. Non si accorsero di me che mi libravo nel cielo, incurante per una volta dei loro occhi e delle loro frecce, e aspettavo freneticamente il momento in cui il suo vestito d’oro, illuminato dal sole nascente, sarebbe apparso sulla cima della collina.

“Quando finalmente lo vidi comparire, mi lanciai a capofitto verso di lei sfrecciando davanti al suo cavallo bianco per cercare di farla tornare indietro. Le gridai parole piene di angoscia, supplicandola di andarsene da lì.

“Ma lei mi rivolse quel suo meraviglioso sorriso e continuò ad avanzare. Mi lanciai più volte in picchiata, sforzandomi di farle capire il mio messaggio, dicendole nel linguaggio della disperazione che c’era pericolo, che non doveva proseguire.

“E lei ricompensò con mille sorrisi i miei sforzi.

“Quando raggiunse il luogo in cui erano nascosti i soldati, questi saltarono fuori e la disarcionarono. Io li assalii, lanciandomi contro le loro armature e allontanando con le mani le loro spade. Piansi mentre i loro colpi mi laceravano le ali, ma continuai freneticamente quella battaglia senza speranza. E piansi ancora di più per quello che fui costretto a vedere.

“Cercai di avvicinarmi al punto in cui giaceva a terra, dove i soldati ci avevano abbandonato al dolore e all’orrore. I suoi occhi erano chiusi e la veste dorata era macchiata di sangue dov’era stata strappata. Mentre le guardavo il viso, mi resi conto che, quando lei era comparsa sulla collina, il primo raggio di sole si era fatto strada nel cielo, ma che adesso era buio come a mezzanotte.

“Lei aprì gli occhi e sorrìse.

“Capii che il sole non sarebbe mai più sorto.”

Era una storia, e solo una storia, che Roan ci raccontò nell’oscurità stellata della città deserta. Ma il tempo, lo sapevamo, spesso si prendeva gioco della realtà e rendeva bugiarda la verità.

Cominciavo, credo, ad avvicinarmi ai miei compagni. Non avevo più bisogno di porre tante domande. Avevo imparato a non cercare ragioni, perché le ragioni erano solo le illusioni del nostro vecchio modo di pensare. Le risposte c’erano e ci sarebbero state, ma non era più necessario fare domande.

Xavier soffriva di una malattia che a poco a poco gli prosciugava le forze.

— Siamo tutti malati — gli disse Joaz. — Non è nulla. Forse il residuo di qualche malattia che abbiamo portato con noi dal nostro mondo. O forse un effetto della droga.

Raccontata la sua storia, Raon ci aveva lasciati per piangere in disparte su cose passate da tempo ma mai accadute. Restammo da soli nella città della notte eterna, abbandonata dagli uomini e dalle aquile quando il sole aveva smesso di splendere.

— Mi brucia lo stomaco — disse Xavier. — Sento come delle bolle che risalgono dalle viscere, si espandono nello stomaco e mi fanno male. Sto morendo.