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Lasciai i due frati e raggiunsi John, intento poco lontano a scrutare il buio di quella notte senza stelle.

— Potrebbe non vedere mai la fine di questa notte — dissi, con la speranza di sbagliarmi.

— Siamo per sempre in stallo — disse John, mostrando il primo accenno d’impazienza dopo molto tempo. — Giorni che non finiscono mai e notti che non hanno mai fine. Dove può essere la nostra meta?

— Tu hai le risposte — replicai con una certa asprezza. — Tu hai la fede! Tu sai che possiamo e dobbiamo riuscire. Ora cominci ad avere dei dubbi? Rimpianti, forse?

Si voltò a guardarmi e nei suoi occhi vividi e infossati colsi un bagliore. John sembrava trarre forza dalle mie stesse parole, sia che lo incoraggiassi sia che lo rimproverassi.

— Stai molto male? — chiese. A modo suo era come se avesse detto: “Abbiamo tutti dei dubbi. E abbiamo fede”.

— Ho dei dolori, ma non molto forti, e un po’ di febbre. Il peso del viaggio si fa sentire.

— Già — disse lui. — Siamo tutti nelle stesse condizioni, eccetto Xavier che soffre di più. Potrebbe davvero essere la droga.

— Non ti sei mai lamentato — dissi. — E nemmeno Joaz.

— È tipico di Xavier lagnarsi — rispose. — Si è sempre fatto carico di fardelli altrui. Un uomo generoso è crudele verso se stesso, Matthew.

— Non saprei — dissi.

— Eppure sembri soffrire più di me.

— Non ti capisco.

John scrollò le spalle. — Siamo un tutt’uno, Matthew. Sono anche spaventato, ma non fa differenza. Dobbiamo andare avanti, finché non troveremo quello che stiamo cercando.

— Ma non Xavier — dissi. — Non possiamo lasciarlo qui?

— Sai che non possiamo.

Si allontanò e anch’io mi misi a fissare quell’oscurità infinita. “Niente alba” aveva detto l’uomo alato. Non ci sarebbero state altre albe. Non dubitavo che fosse vero, anche se un tempo avrei rifiutato immediatamente l’idea, invece di accettarla senza capirla.

— Aiutatemi — ci supplicava Xavier. — Aiutatemi.

Quelle parole mi scossero riportandomi alla realtà. Al monastero la gente rideva di Xavier. Era sempre malinconico, ma non rendeva tristi gli altri. Sentiva davvero le cose in modo più profondo rispetto a noi. Forse si era fatto carico di tutti i nostri fardelli, un peso che, se fosse morto, sarebbe ritornato a gravare su di noi.

Le sue invocazioni d’aiuto erano autentiche.

Tornai sui miei passi e mi inginocchiai accanto a lui. Anche John gli era accanto e Joaz gli teneva il capo tra le mani.

— Cosa possiamo fare, Fratello? — chiesi.

— Mi fa male — si lamentò. — Mi fa davvero male. Veramente. — Pareva disperato nel tentativo di convincerci, come se pensasse che non credessimo alla sua agonia.

— Dormi, Fratello — disse John stranamente.

— Sì, dormi un po’ ora che è buio — aggiunse Joaz. Prima d’ora non avevano mai voluto che qualcuno dormisse.

— Zitti — disse Xavier improvvisamente. Mi afferrò il braccio.

— Che c’è? — chiese Joaz quasi teneramente.

— Sento avvicinarsi qualcuno.

Si udì un suono distante e ossessionante, come un flauto suonato in sordina, senza melodia, senza cambio di tonalità. La nota aumentava e diminuiva d’intensità in modo irregolare.

— È un uccello — decretò Joaz. — Un uccello notturno.

— Sta albeggiando — disse John serenamente.

— Un nuovo giorno! — esclamò Joaz felice. — Xavier… — Guardò verso di lui, ma Xavier non ascoltava.

— Sta morendo lentamente — disse John.

Era questo che voleva dire quando aveva invitato Xavier a dormire.

Aveva ragione. Mentre il sole sorgeva, vedemmo Xavier scivolare nella più completa immobilità.

Fu Joaz, l’amico di Xavier, ad alzarsi per primo dopo aver appoggiato gentilmente la testa del morto sul terreno.

La città era stata completamente cancellata dallo scorrere del tempo.

— Il Reietto aveva detto la verità — dissi. — Per la città, almeno, era sempre notte.

19. Sotto stelle invernali

Nel crepuscolo dominava il grigio. Le pietre sgretolate, le finestre incrinate, l’edera che avvolgeva come in un sudario l’edificio… tutto era grigio. Di giorno avrebbe potuto dare una sensazione di serenità: un edificio frusto che mostrava la sua età nella polvere che il vento aveva eroso dai muri e nelle pietre che le bufere avevano scalzato dai bastioni e fatto cadere nel fossato pieno di fango secco.

Ma quando le ombre della sera e il pallido bagliore della luna scendevano sulla costruzione, i muri ormai sgretolati e i torrioni un tempo austeri assumevano un aspetto feroce, svettando fieramente nel cielo in un’eco di antiche glorie. Le fenditure che l’età aveva scavato erano nascoste da nere ombre taglienti che restituivano ai muri la loro antica solennità.

Alla luce del giorno la cittadella era un cadavere, un fragile guscio, sperduta e dimenticata. Ma la notte del nostro arrivo era ammantata d’ombra e, mascherata, aspettava baldanzosa lo scorrere delle ore notturne.

Sembrava che la luce effimera, apparsa solo dopo la morte di Xavier, ci avesse accompagnato da una notte a un’altra notte. Giungemmo alla cittadella per invaderla, penetrarla e rivelarne il vuoto, per dimostrare la sua vacuità e negarne la pretenziosità.

Il portone d’ingresso pendeva dai cardini, il ponte levatoio era stato da lungo tempo sostituito da pietre accatastate nel fossato asciutto per formare una strada rialzata. Di notte il buio avvolgeva quella zona e nascondeva abilmente il suo stato d’abbandono. Ma quella notte attraversammo quel manto invisibile, superammo il ponte di pietre, ci aprimmo un varco tra la porta scardinata e il freddo muro di pietra.

Nella destra Joaz reggeva una torcia per illuminare la strada, nella sinistra un lungo bastone per tastare il terreno. L’aria, carica di polvere, brillava alla luce tremolante della torcia. Ci fermammo per assaporare quell’atmosfera. Mi ero aspettato una sensazione di infinita tristezza e di maestosità ormai tramontata, ma restai deluso. Provai invece un sentimento di estraneità e di asprezza e di remoti ricordi.

Percorremmo facilmente i corridoi orientandoci senza difficoltà, ma la torcia raramente riusciva a illuminare il soffitto oltre al pavimento e sentivo che la nostra presenza nel castello era insignificante, esattamente come quella delle formiche o dei ragni che si muovevano freneticamente nelle sue cavità.

Giungemmo nel salone principale, un grande ambiente il cui soffitto era di sicuro il tetto della cittadella. Le pareti erano traforate da balconate e finestre che lasciavano immaginare la presenza di una moltitudine di stanze e stanzini raggruppati come un favo intorno al salone centrale. La stanza aveva sette lati, presumibilmente perché il numero sette aveva un significato mistico per gli architetti del castello che lo avevano progettato adottando una forma così inusuale.

Nel salone un tempo vi erano tavoli di quercia, sedie e panche, ma qualcuno, ormai morto da molto tempo, li aveva rimossi lasciando nella polvere piccoli segni sbiaditi. Rimaneva solo l’altare. Era un altare dedicato a una dea, le cui sembianze, ormai dimenticate, erano confusamente preservate da alcune immagini intagliate, in tempi e da mani differenti, su pannelli di legno posti verticalmente intorno alla pietra consacrata per sorreggerla. L’aspetto della dea era spaventoso, l’espressione adirata, ma il suo nome era troppo conosciuto, o troppo terribile, per essere inciso insieme alle fattezze e così era andato perso. Io però sapevo che non sarebbe stato piacevole sentire pronunciare il suo nome e sapevo anche che le sue sembianze, al di là di quelle immagini grossolane, sarebbero state altrettanto spiacevoli. Era una dea onorata dagli uomini, ma dall’essenza non umana. Gli uomini tendono a venerare ciò che vedono di più prezioso in se stessi o ciò che è del tutto sconosciuto e alieno a loro.