Fu soltanto quando ci avvicinammo e potemmo osservare la forma della cosa che cominciammo a sentirci interessati.
Senza alcun supporto visibile, sospesa tra due strutture metalliche simili a piloni, vi era una sfera infuocata di circa un metro di diametro. L’aria tra le sommità delle torri, gonfie e panciute, emanava un bagliore simile a quello di un alone prodotto dal calore, sennonché il campo d’azione era orizzontale e la direzione imprecisata.
— Che diavolo sarà? — domandai a John.
— Un faro?
— Di sicuro non in mezzo al deserto. Che cosa mantiene accesa la luce? Perché quella palla infuocata sta appesa lassù senza supporto e senza cavi?
— Come faccio a saperlo? — rispose, stizzito.
— Sembra una reliquia del tuo leggendario passato — commentai con una certa ironia. — Di sicuro oggi non esiste un solo uomo sulla Terra capace di costruire una cosa come questa. Però nessuno, in qualsiasi epoca, metterebbe un faro in pieno deserto.
Intanto ci avvicinammo. Ora potevamo vedere che le torri poggiavano su un’ampia base cilindrica di pietra. Accanto alla piattaforma c’era un edificio quadrato non molto alto, con inferriate alle finestre e una massiccia porta di metallo.
— Comunque è stato costruito per durare — dissi. — Forse tutto intorno la città è andata distrutta.
Ora John mostrava una vera curiosità. Quello strano edificio era indubbiamente uno dei resti del suo passato perduto, ma quale fosse o fosse stata la sua utilità potevo solo provare a immaginarlo.
Dall’edificio basso uscì un uomo che si piazzò a braccia conserte in mezzo alla strada in attesa del nostro passaggio.
Quando gli fummo accanto lo salutai con un cenno del capo e dissi: — Salve.
Lui rispose con un altro cenno e un lieve sorriso. Era di bassa statura e pareva pendere da una parte, come se avesse avuto una gamba un po’ più corta dell’altra, anche se non m’ero accorto che zoppicasse, quand’era uscito dall’edificio.
John guardava in alto, riparandosi gli occhi dal riverbero accecante e dalle ventate di calore che emanava il globo di fuoco.
— Che cos’è? — domandai all’uomo.
— Il Sole — rispose, e aggiunse: — Io sono il Sole.
John rivolse nuovamente la propria attenzione all’uomo che pendeva da una parte.
— È vostro? — chiese.
L’uomo si fece raggiante. — Tutto mio — ci assicurò. — È un frammento del Sole che ho catturato e unito a me. — Indicò il cielo a sud-ovest in modo che fosse chiaro di quale Sole parlasse. — Il padre me lo donò perché potessi conoscere la mia identità.
Sollevai le sopracciglia con una vaga sensazione di smarrimento. Era evidente che il calore del piccolo sole produceva degli strani effetti sull’uomo.
Ma John lo ascoltava con grande serietà.
— Chi l’ha costruito? Che cosa lo tiene lassù, tra le torri?
L’ometto ci guardò con diffidenza. — Chi siete? — domandò.
— Siamo fratelli — rispose John. — Lui è Matthew, e il mio nome di battesimo è John, ma mi faccio chiamare Lucciola perché rifiuto questo mondo ed emano una mia luce.
Il Sole, così si era presentato l’uomo, rise. Era una risata calma, normale, senza accenni di isteria o di pazzia.
— Lucciola, sta’ attento a non farti bruciare le ali da questo marchingegno — lo schernì. — La tua debole luce, rispetto alla mia, è come un’ombra rispetto alla notte! Cerca di scolpire nel tuo cervello da insetto il ricordo di questo incontro! Guarda la mia luce senza ripararti gli occhi! Anche attraverso le palpebre chiuse riesci ancora a vederne il bagliore. Se la fissi, coprirà di vesciche le tue pupille e ti renderà cieco per sempre. E tu osi dire di emanare una tua luce.
John, colto di sorpresa, si fermò a pensare su quanto era stato appena detto. Notai che la serratura della porta in ferro era rotta, e sia sulla porta, sia sui piloni c’erano delle scritte ormai rovinate dal tempo e rese incomprensibili.
— Da quanto vivete qui? — gli chiesi.
— Da sempre — disse lui, come se fosse stato perfettamente ovvio. — Da quando il padre mi portò qui.
Era la seconda volta che diceva “il padre” anziché “mio padre”, ma da quelle parti i dialetti erano molto diversi, e lo considerai un modo di dire.
John stava tentando di guardare la sfera incandescente senza proteggersi gli occhi. Lo scossi. — Non essere sciocco. Ha ragione lui… quell’affare ti renderà cieco.
— Non c’è niente lì in mezzo — disse con stupore. — Solo fuoco, fuoco puro.
— E qualcosa che viene aspirato dal terreno e scaricato attraverso le torri — dissi. — Qualunque cosa stia bruciando, si trova al di sotto di questa base di cemento.
— Ma è sospesa nell’aria — protestò John.
Il Sole, ovvero l’ometto, ci guardò sorridendo, apparentemente lusingato dall’attenzione che rivolgevamo al suo alter ego.
Darling stava cominciando a sudare abbondantemente per l’intenso calore, e io stesso ero piuttosto sconcertato.
— Dobbiamo salutarvi — dissi all’uomo che prontamente si spostò dalla nostra strada annuendo educatamente.
La giumenta nera si mise in marcia piena di riconoscenza e io mi voltai per vedere l’uomo rientrare in casa.
John, profondamente immerso nei suoi pensieri, guardava la strada davanti a sé.
— Hai notato? — disse.
— Notato cosa?
— Uno dei piloni, quello vicino.alla casa, era rotto alla base.
— No — risposi — non l’ho notato.
— Un giorno — disse John — la torre crollerà.
— Ne dubito — dissi. — Non doveva sopportare molto peso, e poi mi sembrava abbastanza robusto.
— Nonostante questo — profetizzò — cadrà.
— Sei solo invidioso — dissi. Mi resi conto che l’allusione del Sole riguardo all’inadeguatezza delle parole scelte da John per spiegare le ragioni del suo secondo nome lo aveva veramente ferito.
— La mia luce potrà essere pallida — borbottò come se si stesse rivolgendo a una terza persona — ma non brucia con un ardore tale da consumarmi e farmi temere per la mia vita.
Lo guardai con un’espressione beffarda.
— Chissà — dissi.
3. Ombre
Col passare delle settimane uscimmo dal deserto, attraversammo la grande e fitta foresta di Holmchapel per entrare, sempre diretti verso ovest, nella più remota delle terre occidentali: le Valli di Stardene. Al di là di queste vi era solo il Mare Cantore. Non sapevo nulla delle terre del nord, ma le montagne del sud, che la gente del posto chiamava Montagne del Cordoglio Brumoso, sebbene altrove avessero altri nomi, erano sempre chiaramente visibili, tranne nei giorni più uggiosi, quando le nubi e la nebbia le avvolgevano completamente. Il sole, allo zenit, sovrastava un enorme dirupo conosciuto come Picco dei Dolori.
Non avemmo difficoltà a scoprire dove si fosse diretto l’uomo che viaggiava nel tempo. Era uno che rimaneva impresso nella memoria della gente. In quasi tutte le osterie o le locande dove avevamo passato la notte, c’era qualcuno che ne aveva sentito parlare o che lo aveva visto.
Procedevamo lentamente attraverso le Valli. Per paura di rimanere senza soldi, fummo costretti a metterci a lavorare. Di solito raccoglievamo frutta, ma ci capitò anche di affilare coltelli, di riparare tetti e persino di mettere il giogo alla povera, vecchia Darling.