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Joaz si fermò davanti all’altare per illuminare le incisioni ormai in parte distrutte. La forma della pietra sacra era semplicemente quella di un piedistallo di sette lati, convesso nella parte superiore. Su ognuno dei sette lati vi era un’immagine che raffigurava un aspetto della dea o una scena di adorazione, ma le incisioni di pietra erano state danneggiate maggiormente rispetto a quelle di legno, e il loro significato era ormai incomprensibile.

Joaz diede qualche colpetto alla lastra cercando di staccare col bastone appuntito le incrostazioni di polvere, ma la superficie esterna della pietra era fragile e si sgretolò, consegnando così altre immagini all’oblio.

Poi Joaz sollevò la fiaccola ed esaminò le incisioni in legno, fissandole nella memoria come se volesse essere sicuro di riconoscere la dea se mai l’avesse incontrata. Era molto silenzioso, dopo la morte di Xavier, e io temevo che adesso potesse toccare a lui. Sembrava che il fardello collettivo che Xavier si era assunto gravasse ora solo sulle sue spalle, e la malattia era evidente nel modo in cui camminava e nel modo in cui il suo viso era solcato dalla tensione.

Attraversammo le arcate in stile monastico, che sorreggevano la più bassa delle tante balconate affacciate sul salone, e l’irregolare labirinto di stanze poste a caso le une sulle altre, come una serie di blocchi caduti da una pila senza una simmetria o una logica apparente. Il percorso si articolava tra queste stanze, intrecciandosi e serpeggiando attorno al perimetro del castello.

John non mostrò la sua abituale impazienza. Sembrava aver accettato il fatto che non potevamo forzare il passo al fluire del tempo, ma piuttosto il contrario.

Talvolta passavamo accanto al grigio muro di cinta su cui il tempo aveva scavato piccoli buchi attraverso i quali filtrava la luce della luna, ma più spesso ci ritrovavamo all’esterno, sopra un alto muraglione, a guardare quell’oscurità che sembrava senza fine. Il battito regolare del bastone di Joaz ci rassicurava sulla solidità e sulla sicurezza della strada prescelta. Il nostro percorso si snodava in modo circolare, salendo impercettibilmente: un dislivello qui, un frammento di scala là. I muri erano spogli, senza muffe né parassiti, ma coperti da una polvere soffocante depositata dal tempo. I nostri passi echeggiavano debolmente mentre sollevavamo il tappeto di silenzio e calpestavamo la gelida pietra. Ma l’eco era attutita, smorzata dalla quiete del tempo. A volte i passi risuonavano come una litania di voci lontane e io risi un paio di volte a questo pensiero. Ma la mia risata produceva un’eco più aspra, simile al pulsare di piedi in movimento e a voci cadenzate che si alzano in una preghiera dalla melodia a note staccate, e dovevo fermarmi per permettere al cuore di riprendere a battere regolarmente.

Talvolta, attraversando una balconata o una nicchia che dava sul salone centrale, con la coda dell’occhio coglievo il bagliore di un’immagine, come se una fiamma proiettasse sul muro delle ombre sinuose. Ma quando mi voltavo, e con lo sguardo spaziavo su tutta l’apertura, mi accorgevo di essermi sbagliato. E quando una volta avanzai scrutando nella semioscurità, non vidi nulla salvo l’altare, che torreggiava invisibile, e la polvere.

Salendo verso la cittadella, questa impressione si accentuò sempre più. La litania, che cresceva e scompariva coperta dalla nostra eco, divenne più precisa, più simile a un linguaggio fluido e sconosciuto. Quando John ci fece fermare ad ascoltare quel suono, il misterioso canto continuò. In quel momento mi resi conto che sentivamo tutti la stessa cosa e che non era solo una mia illusione. La prima sensazione di debolezza ci obbligò a proseguire coprendo con i nostri passi e con lo struscio irregolare del bastone di Joaz il ronzio delle voci.

Anche le ombre, in alto sulle pareti della colonna ettagonale, presero forma, simili a figure che volteggiavano e si contorcevano seguendo la melodia del canto, con lunghi capelli fluttuanti e braccia flessuose che si muovevano come onde sul mare.

Ma quando ci fermammo per osservare più da vicino, quando tendemmo le orecchie per cogliere quel ritmo appena percettibile, c’erano silenzio e oscurità. E così proseguimmo, salendo in tondo, finché nelle nostre menti risuonarono suoni lontani e si riflessero immagini sfuggenti. Persino io avevo trovato il coraggio di soffocare la paura, ma in nessun caso gli altri sarebbero tornati indietro e quindi non avevo altra scelta se non quella di seguirli. John non sarebbe mai ritornato a vagare attraverso corridoi deserti né sarebbe uscito dal castello per immergersi nuovamente nella notte fino a quando non avessimo completato la nostra esplorazione.

Ma il tremolio di suoni e d’immagini persisteva. Non era la nostra fiamma a proiettare quelle ombre fugaci né l’eco del nostro movimento a creare quella cantilena ritmica. Era un altro tipo di eco: il riflesso del passato, un residuo che nascondeva il volto del tempo.

In sé le ombre non erano pericolose, non erano nemmeno spaventose o aggressive. Era la loro caducità e il fatto che non riuscivo a individuarne l’origine che mi disturbavano perché mi facevano dubitare di me stesso.

Uscimmo all’esterno da una finestra, una misera fenditura verticale costruita più per servire da feritoia che per lasciare filtrare la luce. C’era silenzio, fuori… la calma sonnolenta di una normale notte… e solo il bagliore di stelle invernali e la luce di quella strana luna disturbavano la tranquillità. Era lo stesso paesaggio che avevamo lasciato e la cosa mi tranquillizzò senza che riuscissi a trovare un motivo preciso.

Fu lì, nella parte più remota del grande salone ettagonale, che udii quelle voci musicali vibrare nelle mie orecchie e seppi con certezza che finalmente erano giunte e sarebbero rimaste. Per vedere le ombre proiettate dal fuoco non c’era un passaggio diretto verso il salone, così cominciammo a ritornare sui nostri passi per cercarle.

Salimmo fino alla balconata più alta. Questa era coperta da un tetto formato da travi enormi e da lastre di pietra e ardesia intonacate malamente, le stesse del soffitto del castello, e si trovava esattamente di fronte all’altare decorato. Adesso il ritmo era ben definito, così come lo erano coloro che cantavano e coloro che proiettavano le ombre. Joaz abbassò la torcia e la spense nella polvere. Era diventata inutile.

Di fronte all’altare c’era un enorme fuoco che protendeva in alto le fiamme e il cui fumo annebbiava la stanza e le dava un tocco surreale che nemmeno la mia immaginazione sarebbe riuscita a conferirle.

Intorno al fuoco e all’altare, accovacciate in semicerchio, ondeggiavano al ritmo di una cantilena alcune figure minuscole, simili a nani, la cui pelle liscia e sudata rifletteva la luce del fuoco. Piccoli crani rasati con occhi scavati e vivaci sormontavano corpi nudi e rachitici che oscillavano da una parte all’altra in perfetta armonia e con un sincronismo degno di un pendolo.

Fuori del semicerchio c’era un eterogeneo raggruppamento di fedeli: in quella notte d’uguaglianza, il ricco e il povero si prostravano insieme davanti alla loro divinità.

Uomini e donne vestiti di velluto, pizzo, cuoio e vacchetta sedevano come incantati di fronte alle fiamme impazzite e alla esasperante grazia dei sacerdoti che continuavano a oscillare. Loro però stavano immobili e non seguivano il monotono pulsare della preghiera che ormai doveva essersi impadronita delle loro menti gettandole in un caos di fanatismo in cui il mondo non esisteva più e la dea era tutto. Gli aristocratici e i poveracci, gli invidiosi e i buoni, gli astiosi e i gioiosi avevano tutti un’identica espressione, pensavano tutti la stessa cosa poiché quello era il momento dell’identità. Quello era il momento in cui ciò che rende una donna cieca e zoppa uguale a una principessa era posto forzatamente dinanzi alle loro coscienze.