Entro il confine segnato dal semicerchio di sacerdoti, all’interno dell’area dominata dalla grande dea, danzavano tre figure le cui ombre volteggiavano sul muro. Erano tre donne che mostravano un portamento eretto, movimenti aggraziati e una bellezza che risultava loro solo in parte. Appartenevano alla dea, erano la dea, poiché stavano all’interno del semicerchio. Per questa ragione non avevano sul viso l’espressione di adorazione ebete dei devoti, né erano cadaveri animati come quei sacerdoti-burattini che cantavano ottusamente. Le danzatrici erano completamente e assolutamente vive, godevano di una vita aliena e innaturale poiché ognuna di loro possedeva un eccesso di umanità. I loro visi erano i molteplici visi della dea, celestiali e soffusi, con uno splendore e una bellezza profani. L’ira delle immagini scolpite non appariva minimamente su quei volti, forse perché era riferita a un aspetto differente della dea, forse era simbolica, o forse dominava solo l’immaginazione dei vari artisti che le avevano create. Qualunque fosse la ragione, nella realtà questo sentimento non si manifestava affatto. Non che la dea fosse benigna: la statura delle danzatrici rifletteva potenza e grandezza, ma le emozioni non erano emozioni umane.
All’improvviso, con una grazia e una tranquillità inquietanti, una delle danzatrici si gettò volteggiando tra le fiamme. Sul raso delle sue vesti e sui suoi lunghi capelli serici sbocciarono immediatamente le fiamme e il corpo cominciò ad ardere. La danza continuò. Non era la danza spasmodica e rivoltante dell’agonia, ma una fluida espressione di vita.
Solo quando le fiamme la consumarono, la danzatrice cadde a terra per abbracciare più intimamente il fuoco e solo allora sembrò spirare. La sua morte non impressionò le altre danzatrici, né il coro di sacerdoti né i fedeli dallo sguardo vitreo.
A turno ognuna delle danzatrici si gettò piroettando tra le fiamme, conservando la vita per istanti infiniti per poi cadere silenziosamente, ridotta a scheletro bruciato.
Poi comparve la dea. Incarnatasi della sostanza del loro sacrificio, dell’odore della brace e del miasma del loro trapasso, emerse dalle fiamme. Non si trattava di un semplice agglomerarsi di fumo, né di un’immagine tra le fiamme guizzanti. La sua era una presenza reale quanto le sette pareti della sala, reale quanto la gente che l’adorava. La dea era comparsa nel momento in cui i tre riflessi della sua bellezza si erano uniti nel fuoco.
Si contorse lentamente in una grottesca parodia della danza dei suoi surrogati, intrecciandosi alle fiamme e ai vortici di fumo. Era gigantesca. Per quando racchiusa nell’alone di fiamme, con la sua magnificenza e la sua forza riempiva il grande salone. Era bellissima. Nessuna donna era stata mai raffigurata a sua immagine: la razza dell’Uomo era semplicemente altra sostanza su cui lei posava il tallone, l’argilla sotto i suoi piedi. Era viva ed emanava un’energia incredibile e vibrante che colmava i suoi devoti sviando i loro pensieri più ardenti e materiali per incanalarli verso una ricerca interiore.
Si voltò e i capelli lucenti le fluttuarono sulle spalle. Per un istante i suoi pallidi occhi marmorei incontrarono quelli di Joaz, che si sporgeva dall’alto della balconata togliendo la visuale a me e a John. Forse sul suo bel viso si addolcì quell’aria di comando, forse per un secondo vi comparve un’emozione aliena. In quel momento gli occhi di Joaz divennero fissi come diamanti e i tratti del suo viso furono identici a quelli delle centinaia di facce sotto di lui. La sua coscienza e la sua sensibilità parevano scivolare via a poco a poco e Joaz divenne uno di loro, uno dei devoti, dei pagani, degli idolatri…
Poi fu giorno e Joaz ritornò in sé. Intorno a noi vi era una palude coperta di pellicola argentea costellata da isolotti con pini contorti ed erba secca. A sudest splendeva un pallido sole invernale.
— Matthew — disse Joaz in un sussurro roco, pressante. John, dietro a lui, si teneva tra le mani la testa, come ubriaco.
— Sì.
— Siamo alla deriva. Alla deriva nel caos. Non è il futuro. Non lo è. Non c’è più alcun futuro. Il tempo si è fermato del tutto e la nostra percezione non è più affidabile. Trova l’Uomo Futuro, Matthew. Trovalo e dal caos scaturirà di nuovo l’ordine. Ma devi trovarlo.
— Lo troveremo, Joaz — promisi. — Lo troveremo.
Prima di morire, Joaz guardò John un’ultima volta. — Bada a lui, Matthew — disse.
— Lo farò — promisi ancora.
20. Cantore di sogni
C’è musica nella mia anima e poesia nel mio cuore…
Il sole, simile a una lanterna, pendeva stancamente nel cielo lilla e scivolava a poco a poco verso ovest. La musica aleggiò nell’aria umida. Madido in viso, risalii la collina. John era appena dietro a me.
Ma la musica è una parodia, la poesia una falsa riflessione…
Le note sembravano giungere da molto lontano anche se chi cantava non era distante. L’emozione che risvegliavano nella mia mente mi era sconosciuta, ma in un certo qual modo la identificai come nostalgia.
Nessun uomo che le conosca si vanta della propria arte…
Di certo nessuno dei miei ricordi poteva infondere un sentimento di nostalgia in quelle misteriose note. La loro bellezza e la loro particolarità le rendevano differenti da qualsiasi altra musica avessi mai sentito trarre da un’arpa.
Poiché in nessun modo egli può onestamente divenire artefice del proprio amore…
Ora riuscivo a vedere colui che cantava: una figura piccola, ingobbita, in una lunga veste bianca che gli ricadeva sulle spalle e proiettava ombre sull’arpa. L’uomo era a testa china e la scosse con forza appena staccò la vecchia mano dalle corde ancora vibranti. Era difficile immaginare che la sua voce avesse pronunciato quelle parole ammaliatrici o che le sue mani grinzose avessero accarezzato le corde in modo così sapiente. Eppure le note dell’arpa erano risuonate, le labbra dell’uomo si erano mosse.
Il vecchio mi vide. I suoi occhi erano infossati, quasi invisibili nel cranio, e messi in ombra da folte sopracciglia. Mentre mi avvicinavo, seguito da John, schiuse le labbra screpolate in una parodia di sorriso. — Cercate me?
— No, non in particolare — risposi.
Il vecchio annuì e restò a testa bassa, — Sono il cantore di sogni — disse con voce lenta e ovattata.
— Mi chiamo Matthew. Lui è mio fratello John.
— Perché siete venuti? — domandò il vecchio. La sua voce era aspra, per nulla somigliante a quella che avevo udito salendo la collina. Eppure era la stessa persona.
— Veniamo da molto lontano — dissi — in cerca di un essere di cui non conosciamo le fattezze.
— Allora come lo potrete riconoscere, quando lo troverete?
— Non lo so — confessai.
— Quando lo troveremo, lo sapremo — disse John. Parlò con la certezza che gli derivava dalla fede, ma io non ero altrettanto fiducioso.
— La gente venne per vedermi — disse il vecchio. — Per vedere uno strano uomo che ha vissuto per molte generazioni, che ha visto troppo e che canta con voci che non gli appartengono. Venne per osservare o per ascoltare.
Rimasi in silenzio.
— Ci sono sempre delle storie — disse il cantore di sogni. — Credete alle storie?
— Quali storie? — domandai.
— Sono un uomo anziano — continuò lui, senza badare alla mia domanda — e sogno. Me ne sto seduto con la mia arpa e ho delle visioni. Da dove vengano i sogni, non so. Come potrei saperlo? Li vedo come se fossero miei, ma essi non mi appartengono. Vengono dal passato e da lontano. Non sono miei… mi echeggiano solo nella mente. Non so dire perché.