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“Quante cose ho visto! Molte non le ho potute capire, e molte non le ho volute capire. Ho vissuto per molti secoli e ho sognato, ma non posso capire.

“Un tempo quel sole…” Alzò la mano e indicò il sole cremisi. “Ricordo quando il sole…”

Lasciò cadere la mano senza terminare la frase. Ero un po’ spaventato. Anch’io ricordavo il tempo in cui il sole era di un giallo accecante, non rosso smorto come ora.

— Cosa sogni? — chiese piano John.

— Vi canterò un sogno — disse lui. — Quale sogno? Ditemi, qual è la cosa al mondo che temete di più?

— La solitudine — risposi; la risposta mi uscì così velocemente dalla bocca che nemmeno io ero sicuro che fosse la verità.

— Molto bene — disse sommessamente. — Vi canterò un sogno di solitudine. Di chi sia il sogno, non ve lo so dire.

Le dita nodose pizzicarono le corde dell’arpa. Il vecchio aprì la bocca e cantò. Non era la voce con cui aveva cantato prima, né la sua viva voce. Era una voce nuova, lamentosa, con forti accenti disperati.

Non c’erano parole nella canzone, ma la musica catturò la mia mente e fece sorgere in me delle immagini. Non saprei dire se sia stata l’arpa o la voce a incantarmi così. Forse le due cose insieme.

Nuvole temporalesche si ammassavano minacciose sopra un mare plumbeo solcato da un’unica nave. Aveva un solo albero e scarsa velatura, eppure scivolava veloce nel vento scricchiolando per la tensione. Tre procellarie le passarono accanto svolazzando all’impazzata sopra le onde lente e pesanti. In lontananza c’era una scogliera frastagliata e dentellata, alta e minacciosa. La nave correva verso gli scogli, e io sentii l’ambiguità della situazione: quella terra poteva significare salvezza o distruzione.

L’unico uomo a bordo non sapeva se sperare o disperarsi perché la nave si precipitava all’impazzata contro la costa sconosciuta. Le nubi, alte nel cielo, ribollivano in fermento, riversando sulle ali del vento una pioggia torrenziale.

Mentre la nave acquistava sempre più velocità, l’uomo sussurrò un nome una, due volte. Non pregava, la sua voce non era rotta dalla paura. Pronunciò solo un nome che evocava un antico amore ormai perduto e sogni infranti dal tempo. Balenarono i lampi e i tuoni inghiottirono il nome senza che riuscissi a distinguerlo chiaramente. La parete della scogliera incombeva sempre più vicina e terribile, il mare si aprì in spuma davanti alla nave mostrando denti neri e aguzzi che si protendevano dall’acqua per distruggere il vascello. Il veliero si scagliò contro il nero sorriso degli scogli e si disintegrò al primo impatto.

L’uomo scomparve e il nome che aveva pronunciato fu consegnato per sempre alle profondità del mare.

Il suono svanì, le corde vibrarono e tacquero. Il cantore di sogni, curvo sull’arpa, sembrava pietrificato.

— Cosa successe?

Il cantore di sogni non sollevò lo sguardo. — Morì. Penso che fosse un brav’uomo. Mi chiedo quale nome abbia urlato alla tempesta. Questo è tutto ciò che so. Vedo il cielo, il mare, la scogliera frastagliata. Ma non vedo cosa c’è dietro. Non posso leggere i pensieri di quell’uomo. Non conosco i suoi sentimenti. Non conosco nemmeno il nome che ha sussurrato, perso nel fragore del mare.

— Non eri tu quell’uomo? — domandai.

— Sì — rispose — ero quell’uomo. Sono stato un milione di uomini e donne. Vivo migliaia di momenti che non mi appartengono. Tutti loro sono me, ma io non sono uno di loro. Sono il cantore di sogni, e questo è tutto.

Le sue dita sfiorarono le corde, quasi senza volerlo, e di nuovo la voce, un’altra voce, mi rapì coinvolgendomi in un altro sogno.

Una ragazza alata era distesa sul ramo ricurvo di un grande salice piangente che cresceva accanto a uno stagno. Le ali azzurrine le pendevano mollemente dalla schiena mentre il suo minuscolo piede smuoveva la superficie dell’acqua. Il suo sguardo scrutava il cielo cristallino da sotto la chioma ondeggiante dell’albero.

Una collana di fiori dorati le cingeva le spalle e rampicanti fioriti formavano un’ampia veste che l’avvolgeva come una tunica. Un nauseante profumo di nettare aleggiava intorno a lei.

Lentamente la ragazza smise di contemplare il cielo, guardò in basso e rotolò giù dal ramo. Prima di toccare l’acqua, con un gran frullare d’ali simile al suono di un tamburo impazzito, si librò nell’aria, sfiorando lo stagno solo con la punta dei piedi.

Danzò e piroettò in alto, sopra i rami del salice. Si innalzò fino a diventare un puntino in un mare sempre più blu e continuò a salire e salire finché scomparve. Sebbene non ci fosse vento, i rami del salice sembrarono muoversi, poi fremettero e iniziarono a scuotere l’aria cercando di afferrare sette petali color rosa che scendevano fluttuando dal cielo.

Poi la ragazza precipitò. Il suo viso esprimeva con terrificante chiarezza un grande dolore. Il petto ansimava come per mancanza d’aria. Le minuscole mani afferravano convulsamente l’aria e le gambe si dibattevano. Ma la ragazza continuò a cadere nel vuoto come risucchiata da un vortice. Solo all’ultimo istante, quando sembrava ormai inevitabile che lei si schiantasse al suolo, il battito delle ali cominciò a produrre un effetto. La caduta rallentò; singhiozzando, la ragazza afferrò i rami del salice e vi rimase appesa, mentre i capelli le ricadevano sugli occhi e le ghirlande pendevano, strappate.

Tornò a sdraiarsi sul basso ramo del salice piangente. Le ali azzurrine, percorse da un leggero fremito, si ripiegarono, fragili e inutili. Le sue lacrime incresparono la superficie dello stagno, rigandole le guance mentre scrutava il cielo cristallino fra l’amorosa chioma dell’albero.

— Era una driade — spiegò il cantore di sogni dopo che l’immagine scomparve. — Era legata all’albero, non poteva lasciarlo. Per questo le ali non le erano di nessuna utilità.

— Hai dei bellissimi sogni — gli dissi.

— Non sono io — rispose. — Sei tu che hai dei bei sogni. Tu e tuo fratello. Tutti e due. Sono tutti sogni vostri.

— Non ne hai nessuno tuo? — gli chiesi.

— Solo uno.

— Raccontamelo.

— Questo è mio. Però l’arpa deve suonare ugualmente. Ascoltate.

Le nuove note mi colpirono le orecchie e mi riempirono gli occhi di lacrime. Cantava con una nuova voce, una voce che era allo stesso tempo sconosciuta e familiare, tanto che mi toccai le labbra per vedere se fossi stato io a cantare e non lui. Mi calmai quando la musica s’impadronì di me, si concentrò sul mio essere, mi turbinò attorno. Per un istante mi chiesi se anch’io facessi parte del cantore di sogni, se anch’io fossi un personaggio delle sue storie. Poi ci fu solo la musica…

Ero in un giardino con fontane dorate sormontate da pennacchi di vapore e sottili spruzzi d’acqua. Ero venuto a cercare qualcosa che con gli anni avevo dimenticato. Ed ero venuto anche a cercare qualcosa di nuovo, qualcosa che esisteva solo in quel giardino e in quel momento. Ero venuto a cercare qualcosa che mi ero lasciato alle spalle molto tempo prima. Un viso, un ricordo, una persona. Ero venuto a seppellire i miei rimpianti, a ripensare a un amore che sarebbe potuto essere mio e a chiedermi perché, tanto tempo prima, lo avevo perso. Sapevo perché. L’ambizione, o qualcosa di simile, mi aveva portato tra braccia infide e condotto lontano per inseguire un fuoco fatuo, un sogno vano di cui nemmeno conoscevo la forma.

Non ero venuto a chiedere perdono, ma speranza. Che, tra le due cose, lo sapevo bene, era la più importante, poiché tornare nei ricordi è impossibile, mentre sapere che il futuro ha ancora in serbo qualcosa per te è fede. Mi chiedevo per quale ragione mi battesse il cuore, per quale ragione continuassi a brancolare nel buio cercando la luce del giorno.

Si dice che la speranza batta eternamente nel petto dell’uomo, ma io sapevo che non è così. Infatti non nutrivo più speranza: il mio cuore era prigioniero del rimorso e non avevo sogni da realizzare. Avevo cercato la piena affermazione di me stesso, ma ero giunto alla conclusione che la potevo trovare solo lì, nel giardino.