Il cantore di sogni sembrava sapere dove stava andando, benché non avesse mai menzionato a nessuno dei due una destinazione precisa. Ritengo possibile che seguisse quella strada solo perché gli era stata assegnata e come noi non avesse idea di dove conducesse.
Quando giungemmo sulle rive del lago di luce, però, seppi con certezza che quella era la fine, che qualcosa nel bagliore perlaceo di quell’irreale mare di colore poteva fornirmi un indizio, una risposta. Come saremmo salpati per navigare su quella conca di luce non lo sapevo, ma sapevo che al momento giusto, passeggiando sulla spiaggia, avremmo trovato il modo per farlo. La mia sola spiegazione a queste sensazioni e a queste strane certezze era che si trattasse di informazioni che filtravano dal cantore di sogni o dalla sua arpa.
Camminammo per chilometri lungo la spiaggia dorata, volgendo continuamente lo sguardo ai bagliori del lago velato di foschia. Le nostre orme sulla sabbia erano profonde e solitarie, e si allungavano dietro a noi fino a essere inghiottite da una nebbia di luce colorata. Mentre camminavamo notai nelle acque vorticose del laghetto delle forme modellate da una sostanza simile all’argento vivo. Vidi dei visi che esprimevano emozioni, persone e non-persone che mimavano strani gesti avvolti da una luce misteriosa.
Sentii che c’era un’affinità tra il lago di luce e l’arpa: ciascuno era a proprio modo lo specchio e la memoria di una razza la cui esistenza scorreva nel vecchio, sotto forma di sogno. Mi chiesi se il lago avesse il proprio cantore di sogni, un vettore umano per il suo pozzo di conoscenza e di emozione.
Improvvisamente ci imbattemmo nella barca. Era una piccola imbarcazione a remi, ma senza remi, che pareva stranamente comune e ordinaria in quel mondo fantastico al di là del vasto dominio del Tempo. Silenziosamente, ma con un bagliore negli occhi violetti e seminascosti, il cantore di sogni si sedette a prua e si sistemò accuratamente l’arpa tra le gambe. Io e John ci sedemmo di fronte a lui sull’altro sedile senza sapere che cosa fare, aspettando di vedere cosa sarebbe successo.
Lentamente, senza la minima increspatura del fumoso mare di colore, la barca cominciò a scivolare sul lago di luce. All’improvviso ci ritrovammo in mezzo alla nebbia. Non riuscivo più a vedere la spiaggia da cui eravamo partiti né il luogo verso cui ci dirigevamo. Anche il cielo era caoticamente ingemmato dalla vivida aurora boreale.
Il silenzio mi opprimeva. Il cantore di sogni non cambiò mai posizione né disse una sola parola. Le corde dell’arpa erano immobili e io desiderai che il vecchio suonasse, che evocasse un sogno antico e familiare per bandire dalla mia mente quel luogo. Quasi senza volerlo allungai la mano e pizzicai le corde, un gesto che prima non avrei mai osato compiere. Il cantore di sogni mi fissò senza sorpresa né rabbia, ma sentii che le corde si erano irrigidite: non riuscii a farle vibrare.
Girai le spalle ai colori che baluginavano accanto alla barca. Vidi nuovamente dei visi nella nebbia, volti silenziosi che comunicavano tra loro ma non con me.
Poi, più per rompere quel silenzio opprimente che per convinzione, dissi: — Penso di avere visto una faccia che conosco.
— Li conoscevo tutti… un tempo — sussurrò il cantore di sogni. Mentre ci immergevamo sempre di più in quel caos di colori, la nebbia divenne così fitta che la sagoma del vecchio a prua andò sempre più confondendosi con un pulviscolo luminoso che si muoveva lentamente ora illuminandolo, ora facendolo sprofondare nell’oscurità più cupa, mantenendo però sempre quell’effetto cangiante e caleidoscopico che mi confondeva e mi spaventava più di tutti gli strani fenomeni legati al cantore di sogni.
— Quanta strada dobbiamo percorrere ancora? — chiesi infine.
— Non più del necessario — rispose il vecchio dall’oscurità. Di sicuro aveva colto la paura nelle mie parole poiché soggiunse: — Dimenticate che vi sia un uomo in queste ombre colorate. Non cercate di vedermi perché più ci provate più sarà facile che mi perdiate.
Ero felice della presenza di John accanto a me, potevo sentirlo e vederlo senza pericolo di perderlo nella nebbia; ma anche i suoi lineamenti cominciarono a tremolare e a cambiare, quando la luce iniziò a modificare in modo bizzarro quei tratti che sapevo essere reali e concreti: immaginai che fossero semplicemente illusioni.
Talvolta il cantore di sogni scompariva quasi del tutto, assumendo delle pseudo forme, come quella di una scimmia o di un grosso uccello. Una volta si trasformò in un’arpa, e io sentii quasi le corde vibrare, ma il silenzio prevalse e l’illusione scomparve in un istante. Mi chiesi quali strane forme plasmate dalla nebbia i suoi occhi vedessero in noi.
Alla fine fu la confusione ad avere la meglio. — Non riesco più a distinguere nulla — dissi.
— Nemmeno io — mi fece eco John. — Ma se vuoi, puoi chiudere gli occhi e affidarti agli altri sensi. Io sono qui, accanto a te.
— Hai gli occhi chiusi? — volli sapere.
— Sì.
Lo imitai. Potevo sentire il solido legno della barca sotto i piedi e le natiche. Potevo sentire i miei vestiti a contatto con quelli di John lungo tutto il lato sinistro. Mi sembrò di riuscire a sentire anche il suo respiro.
— È reale — dissi. — È reale.
— Nulla è reale, eccetto una sola cosa, e questa cosa è più di voi, di me o del lago di luce — disse il cantore di sogni.
Non gli badai.
— L’arpa è reale, vero? — domandò John.
— Una parte. L’intero universo ne è una parte.
— E cos’è questa cosa?
— Lo vedrai a tempo debito. La nostra traversata è quasi finita.
Entrambi ricaddero nel silenzio e io rivolsi l’attenzione alla luce che ci avvolgeva, pronto a richiudere gli occhi nel caso mi fossi sentito nuovamente confuso o spaventato. Il mio mondo sembrava una lastra di vetro crepata qua e là, argentata per formare specchi in miniatura e trasparente al punto che riuscivo a vedervi l’eternità. A volte la luce echeggiava, risuonava e fluttuava, come se in quello schema ci fosse una logica che mi sfuggiva. Sembrava che tutte le proprietà ascrivibili alla materia, allo spazio e al tempo intesi come entità ben distinte, fossero qui riunite in un’unica forma basilare.
Lentamente la nebbia cominciò a diradarsi. I contorni del cantore di sogni sfumarono nelle stesse forme abbozzate in precedenza, in un tormentoso chiaroscuro, poi infine nelle sue sembianze originarie.
Dall’aria scomparvero gradatamente mosaici di colori, e le facce svanirono in lontananza. Eravamo soli.
— Là — indicò il cantore di sogni.
Sembrava una città: minareti e pagode, guglie e spigoli vivi, tutti di una sostanza simile a una luce colloidale, come se il lago si fosse rappreso in una serie di dipinti tridimensionali.
Per un istante capii qualcosa dell’affinità tra il lago e l’arpa che il cantore di sogni portava sempre con sé. Nel lago c’era tutto quello che si poteva “vedere” nel mondo. Nell’arpa c’era tutto quello che si poteva “sentire”. Un diversivo dei sogni, ecco cos’era.
— Hai creato anche questo! — lo accusai.
— Sto cercando di farlo — disse lui. — Ma è molto difficile. Sto tentando di completare la mia opera ma ci sono talmente tante cose da fare. Un giorno però costruirò molto più di questa città. Costruirò l’intero universo. Creerò qualcosa di cui l’universo sarà solo una parte.
— Cos’è questo posto? — domandò John, che contemplava la schiera di torri e cupole.
— È mio — rispose semplicemente il vecchio cantore di sogni.
— Ma cosa dovrebbe essere? — insistette John, in tono pressante, come se fosse sul punto di scoprire qualcosa di importante. Non avevo certo bisogno di chiedere cosa fosse.
— È tutto me stesso. Il mio sapere, i miei ricordi, le mie emozioni, le mie molteplici forme. È ogni mio pensiero espresso in un’entità singola, ogni mio sogno realizzato. È il limite della mia creazione.