Riuscii in qualche modo ad afferrare il lembo di un vestito e lo tenni stretto. Pensai che fosse di John, ma non potevo esserne sicuro.
L’ascesa rallentò e alla fine, scagliati fuori del tunnel, ci trovammo a rotolare su roccia nera e dura, ma quando ci fermammo ci rendemmo conto che nessuno di noi aveva riportato ferite.
Lasciai andare il lembo del mantello che avevo afferrato e vidi con sorpresa che non apparteneva né al cantore di sogni né a John, ma all’uomo bruno.
A pochi passi da me il cantore di sogni riportava alla quiete le corde dell’arpa mentre l’oceano riassumeva il suo aspetto normale. Il vecchio prese l’arpa e si avviò lungo il cornicione di roccia. Senza una parola, l’uomo bruno si diresse nella direzione opposta.
Mi mossi per seguire il vecchio, ma John mi trattenne. — Non ce n’è più bisogno — disse.
— Hai visto quel che volevi vedere? — gli domandai. — Il sogno che pensavi fosse tuo?
— Sì.
— E…
— Forse nessuno di noi è padrone dei propri sogni.
— E adesso?
— Il pellegrinaggio. Dobbiamo trovare quello che stiamo cercando. Non so se abbiamo ancora molto tempo a disposizione.
— Tempo?
— Sono malato, Matthew.
Lo guardai in silenzio. Era impossibile. Xavier era più vecchio di Joaz e Joaz era più vecchio di me. Ma John aveva tredici anni meno di me, non poteva morire. Era così giovane.
— Cos’è successo laggiù? — gli chiesi pensando che fosse stato ferito.
— L’ultimo uomo ha deciso che non voleva ancora morire.
— Perché mai avrebbe dovuto desiderarlo?
Gli occhi di John frugarono nei miei catturando il mio sguardo. — Suppongo perché era solo.
Scossi la testa.
— Dobbiamo muoverci — disse John. — Dobbiamo trovare quello che stiamo cercando.
— Non puoi morire — dissi. E intendevo dire che non poteva lasciarmi lì da solo.
Avevo bisogno di lui. Era tutto ciò che avevo. Non avevo bisogno della sicurezza del mio mondo, non avevo bisogno dell’appagamento che mi portavo dietro da quando il mio sogno era morto. Avevo solo bisogno di lui.
“Non lasciarmi qui!”
24. La fine del tempo
Vediamo caos nel caos.
Vediamo la furia dell’irrazionalità.
Vediamo Terra, Aria, Fuoco e Acqua che si combattono lasciandosi alle spalle un mondo distrutto.
Sotto di noi, e tutto intorno a noi, la superficie terrestre si divide mostrando per un attimo pareti di roccia e subito dopo si richiude di colpo. Zampilli di roccia fusa e fiamme schizzano nel cielo e si spengono come bengala in una folle cascata di scintille.
In alcuni punti è possibile vedere una massa verde di vegetazione, in altri ceneri scure ne testimoniano la scomparsa. Gli animali terrestri saranno stati i primi a morire mentre gli uccelli, probabilmente, gli ultimi. Riesco a vedere, alti nel cielo, minuscoli punti neri che potrebbero essere uccelli. Là forse sono temporaneamente al sicuro da tutto questo trambusto, finché il terrore o la fame o la stanchezza non consumano le loro energie conducendoli alla morte. Dietro quelle figure che vagano lentamente nel cielo, il sole guarda, distaccato e indifferente. E rosso, rosso mattone.
La pianura s’increspa sotto la forza deformante del terremoto come una bandiera nel vento. Immense voragini si aprono nel terreno ondulato, grandi blocchi di roccia scivolano con un tremito nelle fauci della Terra, nuove terre emergono sospinte dalla terrificante forza delle maree. Massi enormi cominciano a vibrare e a rotolare. Grandi nubi di polvere si sollevano da terra trasportando le spore, l’ultimo appiglio, l’ultima possibilità di vita su quella terra convulsa.
Frammenti di roccia e di terriccio franano come grandi fiumi di terra dalle pareti delle voragini e riempiono la bocca spalancata dei crepacci. Sotto la nostra solitaria postazione in cima a una tranquilla collina scoppia una bolla di roccia e fiamme e lava inondano la base dell’altura. Per un lungo istante quel fiume di distruzione scorre intorno a noi e gli artigli del suo calore ci raggiungono lacerandoci la pelle e privandoci momentaneamente di una chiara visuale. Poi il fumo scompare, il caldo viene spazzato via da un grande vento e noi possiamo di nuovo vedere la Terra che vomita la sua sconosciuta malattia nel cielo colorato.
Avanzando dall’estremità di un nuovo solco creatosi nel suolo, un’enorme ondata di terra e roccia, trascinata violentemente dalla lava fusa, va a colmare la nuova valle. Una seconda ondata si diparte dall’imboccatura più vicina della valle e avanza a una velocità spaventosa all’impatto che farà tremare il mondo. Mentre corrono verso la reciproca distruzione, le creste delle onde di lava scagliano in aria grandi massi. Le estremità scorrono più velocemente e i fronti d’onda s’incurvano. Le vaste pareti diventano sempre più ripide mentre la valle si spacca sotto la loro pressione.
Poi i due fronti si scontrano producendo uno stupefacente schizzo di fiamme colorate. All’orizzonte osserviamo l’esplosione di una catena montuosa che in segno di sfida scaglia tutta la sua rabbia verso un sole troppo lontano. Alla nostra sinistra si apre una fenditura nella valle e la lava comincia a riversarsi nelle sue invisibili profondità. I bordi della voragine si sgretolano e l’abisso si richiude.
Lampi accecanti sezionano un orizzonte sempre più scuro. Guglie e pinnacoli di granito vacillano e si schiantano a terra. In cielo vediamo il riflesso rabbioso di un grande incendio che continua ad avanzare velocemente verso di noi propagandosi su entrambi i lati. Vediamo le fiamme agitarsi sopra le ferite scoppiettanti della crosta terrestre. Vediamo le volute e i vortici di un fumo rosso e ciclonico levarsi dalle fiamme turrite.
E il potente vento, compagno dell’incendio, ci trascina via dalla nostra postazione privilegiata scagliandoci lontano dallo spettacolo dell’agonia della Terra, impedendoci così di assistere alla quiete che segue ogni tempesta, quando le spore nelle nuvole di polvere si poseranno sulla superficie terrestre per cominciare una nuova vita.
— È troppo tardi — dice John.
— Cosa vuoi dire?
— Non sono abbastanza in forze, Matthew.
— Ti porterò io.
— Non cambierebbe nulla.
— Deve cambiare.
— È finita, Matthew. Sto morendo.
— No.
— Come Xavier, come Joaz.
— No. — Sono in lacrime.
— Ora sei l’unico, Matthew.
— Non posso rimanere solo.
— Devi proseguire. Devi vedere quello per cui siamo venuti.
— Non mi lasciare, John.
— Sto morendo, Matthew.
— Non ancora. Ti prego, non ancora.
È disteso sul terreno incrostato di bava bianca e cremosa, gonfio come una vescica e bluastro come un livido. Provo un’irreprimibile senso di repulsione, mentre lo guardo dibattersi lentamente sul ventre molle e putrido.
Le braccia, simili a filamenti viscidi e gonfi, si irradiano dal corpo e penzolano come festoni ingarbugliati nell’acqua stagnante di una pozza a poca distanza. Sono coperte di verruche di un intenso color azzurro cielo e cosparse d’innumerevoli ventose violacee. Mi ricorda un poco le meduse o le comatule.
Pori lilla trasudano un liquido oleoso che gocciola sul terreno.
Sulla parte superiore dell’animale c’è un occhio. Riesco a malapena a distinguere il blu sbiadito e iridescente del cristallino semitrasparente posto in un’iride multicolore simile a un piatto. L’occhio ha due palpebre di colore nero-violetto e una sottile membrana nittitante che si apre e si chiude a intervalli regolari come un metronomo.
L’animale, se è un animale, giace a terra, rivolgendo il suo unico grande occhio a un cielo vuoto come il suo sguardo. Non ha bocca né altre appendici, a parte quei tentacoli gelatinosi che ho definito braccia.