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Suppongo che non sia feroce né pericoloso, ma lo vedo come qualcosa di tembile e spaventoso. Mi chiedo se quella creatura sia davvero nata sulla Terra o se invece non sia un visitatore proveniente da qualche mondo lontano e disgustoso i cui figli hanno tutti quell’aspetto.

L’orrenda creatura non si accorda affatto con l’ambiente. Ci sono terra ed erba, sabbia e cielo, sole e nuvole, acqua e vento, fiori e mosche, alberi e argilla, uccelli e cespugli.

Immagino che sia morta, e che quel suo movimento lento e ritmico sia causato da qualche riflesso naturale. Ma si solleva, una volta, con un muto sospiro che ricorda il risucchio della fanghiglia, come una grossa sacca d’aria maleodorante.

E noi scappiamo via.

— Sto morendo, Matthew.

— Non morire, ragazzo. Ho bisogno di te. Non rimarrà più nessuno a portare avanti questa tua folle ricerca. Io non posso farcela. So che tu lo vorresti, ma non è una buona idea. Non sono un sognatore, non sono un credente. Lo sai che non ho fede. Se muori, John, hai fallito, non conta quello che posso fare. Non c’è nessun bisogno di morire. Non devi fallire. Ti porterò sempre sulle mie spalle. Puoi dormire. Ti darò del cibo. Niente ti disturberà. Tu hai questa missione. Tu hai l’anima. Tu sei la Lucciola che emana la propria luce. Se tu te ne vai, non ci sarà più luce nel mondo, John. L’ultimo uomo è morto. Ci sei solo tu, John. Io non sono nulla. Solo tu. Non morirai, John, non senza sapere, non è così?

— Io so già, Matthew. Ho fede.

Cenere ovunque. Siamo circondati da una massa di scaglie di cenere che forma un deserto nero fino ai piedi delle montagne incrostate di lava. La cenere fluttua nell’aria in migliaia di grandi frammenti di carta, in un milione di piccole schegge e particelle, in un miliardo di corpuscoli polverosi che il vento sospinge in una nube vorticosa. Si adagia lentamente, soffice e grigia, si solleva languidamente come se fosse fumo.

Rocce nere come la notte presentano ai nostri occhi superfici erose dall’acqua che dividono l’oscurità in ombre grottesche e spigolose. È buio pesto. Il freddo sguardo della luna piena si sofferma appena sulla Terra ritraendosi dalle superfici ruvide senza osare quasi sfiorarle.

Nella mezza luce le pietre assumono le sagome di nani deformi, di giganti acquattati, di chimere misteriose, di torri crollate e di alberi contorti.

È un mondo gelido, terso, bizzarro, eppure le stelle sono le stesse che ho sempre visto e conosciuto, o almeno credo sia così.

— Ora mettimi giù, Matthew.

— Non manca molto.

— Per dove?

Mi fermo. “Già, per dove?”

Il sole sorge sul mare. È rosso cupo, nell’aria densa di polvere.

L’oceano, torbido e opaco, bagna pigramente il litorale lisciando la grigia sabbia smossa. Non vi sono conchiglie sulla spiaggia, né alghe. È un mare spoglio, vasto, grigio screziato di marrone. E puzza.

Nell’entroterra la vegetazione è scarsa. Un’erba rada e bassa intervalla cespugli appassiti per un centinaio di metri tra la spiaggia e una distesa di frammenti di roccia e ghiaia dove crescono un paio d’alberi e dove alcuni fiori si abbarbicano a minuscole chiazze di terriccio.

Tra le rocce, proprio al centro dell’isola, c’è un bacino di cinque chilometri di diametro, un pozzo coperto di fitta vegetazione tropicale, una profusione di verde lussureggiante e di alti fusti.

Non c’è nessun essere vivente.

Distendo a terra John e lo riparo dal vento. Sabbia rossa mi soffia negli occhi, ma proteggo il suo viso nascondendolo tra le braccia.

— Non posso più andare avanti — dico. — Non io.

— Devi farlo.

— Sei tu che conosci tutte le risposte, non io. Io non capisco, non so cosa provare, cosa vedere. Non so il perché.

— Ma sono sempre stati i tuoi sogni, Matthew! Li ho solo presi in prestito. Ora li puoi riavere.

Ricordo il deserto, dove fuggivamo sotto le stelle, mentre i lupi ululavano e ci seguivano; e il vento mi sussurra parole di morte e disperazione. La sabbia geme contro la nuda roccia, inseguita da una tempesta senza nubi, e noi seguiamo la sua pista, anche noi inseguiti e sospinti. La notte è limpida e brutta e muove le sue goffe mani, il vento, in una maniera crudele e spietata, che ci fa soffrire e mi ricorda tutta la mia solitudine.

Il vento ci porta sempre il latrato dei lupi. A volte quelle belve sembrano singhiozzare, ma spesso ridono con gioia beffarda. Li potremmo vedere mentre danzano contro la luna se non si muovessero furtivamente nei burroni senza mai mostrarsi. Strisciano come vermi e scivolano nelle fenditure che tagliano a brandelli il deserto.

Non possiamo fermarci, ma dubito che siano il coraggio o la forza a farci andare avanti. Ma non sono neanche la paura o la disperazione. È la follia a sostenerci così come la notte sorregge il deserto, senza via di fuga e senza speranza.

Anche John potrebbe vedere, come me, la follia che fa scorrere il deserto accanto a noi e fa echeggiare gli ululati dei lupi nel nostro cranio. Potrebbe vedere le ombre scure ammantare la terra e seppellirci sotto un piacevole oblio. Non può vedere me, lo so. Non mi ha mai capito.

Molto più tardi qualcuno allunga la mano e mi tocca. È il cantore di sogni.

— Tu — dico. — Solo tu. Non c’è nessuno, tranne te.

— È morto? — domanda il vecchio. I suoi occhi violetti guardano di sbieco il corpo a terra.

— Certo che è morto. Ora rimane solo uno, e quell’uno sono io. Cosa posso fare?

— Cosa vuoi fare?

— John dice di andare avanti.

— E tu lo farai?

— A che scopo?

Ma conosco la risposta a questa domanda. Non c’è nessuno scopo. Non è rimasto nessuno a fornire motivazioni. Sono solo, solo con la mia non-fede, nonverità, non-esistenza. È la prima volta che mi ritrovo solo da quando, tanto tempo fa, ho perso i miei sogni in un giardino.

— Gli volevo bene — dico, come se il cantore di sogni avesse mai potuto dubitarne. — Era mio fratello — spiego.

Il cantore di sogni inizia a suonare. Immagino che sia un inno religioso o un canto funebre, ma non lo è. Il suo corpo si lacera e si decompone, come se una fiamma gelida lo consumi, come se tutto il tempo che fu lo disgreghi.

E John comincia a crescere.

25. I mondi al di là del mondo

Che sta succedendo?

Un rompicapo. Un gioco di pazienza con parole al posto di tessere.

Alvaro. Non possiamo sapere, poiché anche se vedessimo l’Uomo Futuro, non potremmo capirlo… per conquistarlo, vedi, devi far diventare tuo qualcosa… devi farlo diventare parte di te… qualcosa che puoi controllare e dominare… l’Uomo Futuro dev’essere un passo più avanti, dev’essere completamente svincolato dall’influenza dell’ambiente circostante. Sarà libero.

“Un sogno. Non sono John. Sono Matthew… sono Matthew, non John…”

L’uomo che viaggiava nel tempo. Un tempo eravamo rettili, i tuoi antenati e i miei… gli uomini comuni continueranno ad andare avanti, ma saranno le scimmie del futuro… semplici animali senza scopo né destino.

“Un sogno. Per favore, chiudete la porta. Vi preghiamo di notare che USCITA si trova all’interno. Non potete uscire da questa parte.”

John. Che uno solo di noi veda, basta per tutti gli altri… ci faremo portatori delle speranze e delle benedizioni di centinaia di uomini, migliaia di persone nel passato e nel futuro… Se uno di noi può vedere, se uno solo di noi può conoscere la nascita e il trionfo dell’Uomo Futuro, allora questo sarà sufficiente… Andremo insieme… alla fine del tempo… Tu e io vedremo l’Uomo Futuro… lo “so”.

“Un sogno. Un giardino con fontane dorate… ero venuto a cercare qualcosa che avevo dimenticato… a cercare anche qualcosa di nuovo… ero venuto a seppellire i miei rimpianti… chiesi speranza… lei era morta… lei era morta!”