San assunse l'espressione vacua di chi sta pensando come riuscirci, guadagnandoci anche un po' di soldi. Ma il maggiore, che stava in guardia come sempre, rigido come un palo, girò appena la testa per dare un'occhiata a San. L'espressione di San cominciò a cambiare.
Se la proposta di Solly fosse stata un po' fuori dalla norma, San gliel'avrebbe fatto capire. Quel pallone gonfiato del maggiore la stava semplicemente controllando, cercando di tenerla al guinzaglio come se fosse una delle sue donne. Era tempo di sfidarlo. Si girò verso di lui e lo fissò dritto negli occhi. «Rega Teyeo,» gli disse, «capisco che ti hanno ordinato di tenermi sotto controllo. Ma se dai degli ordini a San o a me, devono essere impartiti ad alta voce e devono essere giustificati. Non mi farò manovrare dai tuoi battiti di palpebra o dai tuoi capricci.»
Ci fu una pausa di durata considerevole, una pausa veramente deliziosa e appagante. Era difficile capire se l'espressione del maggiore fosse cambiata. Le luci soffuse del teatro non evidenziavano i dettagli della sua faccia nera bluastra, ma c'era qualcosa di raggelato nella sua immobilità che le rivelò di essere riuscita a bloccarlo. Alla fine lui disse, «Ho il compito di proteggerla, Nunzio».
«Devo temere i makil? È forse poco opportuno che un inviato dell'Ekumene si congratuli con un grande artista di Werel?» Ancora quel silenzio glaciale. «No,» disse lui.
«Allora ti chiedo di accompagnarmi dietro le quinte, dopo lo spettacolo, per parlare con Batikam.»
Un cenno rigido. Rigido, pomposo e sconfitto. Uno a zero per me! pensò Solly, e si adagiò tutta allegra sulla sedia per ammirare le danze erotiche, i pittori con le luci e la scenetta curiosamente commovente con cui finì la serata. Era in versi arcaici, difficili da capire, ma gli attori erano tanto belli e le loro voci così dolci che lei scoprì di avere le lacrime agli occhi senza sapere perché.
«È un peccato che i makil attingano sempre dall'Arkamye» disse San compiaciuto, con bigotta disapprovazione. Non era un possidente di alta classe, e infatti non possedeva alcuna proprietà, però era sempre un possidente, un Tualita bigotto, e gli piaceva ricordarselo. «Delle scene dalle Incarnazioni di Tual sarebbero più adatte per questo tipo di pubblico.»
«Sono sicura che sarete d'accordo, Rega» disse lei, crogiolandosi nella propria ironia.
«Niente affatto,» replicò il maggiore con una gentilezza così inespressiva che dapprima lei non capì che cosa avesse detto. Poi Solly dimenticò tutto nel trambusto, mentre cercava la maniera di entrare dentro le quinte e nei camerini degli attori.
Quando capirono chi era, i dirigenti della compagnia cercarono di far sloggiare tutti gli altri attori, lasciandola sola con Batikam (e San e il maggiore, naturalmente), ma lei disse, «No no no, no, questi artisti fantastici non devono essere disturbati. Lasciatemi parlare solo per un attimo con Batikam.» Stava lì nel trambusto del cambio dei costumi, tra gente mezza nuda, col trucco disfatto, risate, la tensione che cominciava a dissolversi dopo lo spettacolo, il retroscena qualsiasi di un mondo qualsiasi, parlando con quell'uomo di intensa acutezza vestito con un elaborato costume femminile dei tempi andati. Andarono subito d'accordo. «Puoi venire a casa mia?» gli chiese lei. «Con piacere,» disse Batikam, e i suoi occhi non scattarono verso il viso di San o del Maggiore. Era la prima volta che non vedeva uno schiavo lanciare uno sguardo alla sua guardia o alla sua guida per chiedere il permesso di dire o fare una cosa, qualsiasi cosa. San sembrava evasivo, il maggiore era rigido. «Torno tra un attimo,» disse Batikam. «Devo cambiarmi.»
Si scambiarono un sorriso e lei se ne andò. L'eccitazione era di nuovo nell'aria. Le enormi stelle vicine erano ammassate come grappoli di fuoco, una luna precipitò dietro i picchi ghiacciati, un'altra saltellò sopra i pinnacoli a volute del palazzo come una lanterna sbilenca. Solly camminava a grandi passi per le strade buie godendosi la libertà e il calore del vestito da uomo che indossava, e costringeva San a correre. Il maggiore dalle gambe lunghe, invece, reggeva bene il suo passo. Una voce alta, squillante la chiamò, «Nunzio!» Lei girò il capo con un sorriso, poi si voltò del tutto nel vedere il maggiore avvinghiato con qualcuno all'ombra di un portico. Lui si divincolò, la raggiunse senza dire nulla, le afferrò il braccio in una morsa d'acciaio e la trascinò in una corsa. «Lasciami!» disse Solly, dibattendosi. Non voleva usare una mossa aiji su quell'uomo, ma era l'unica risorsa che avesse a disposizione.
Effettuando una svolta improvvisa in un vicolo, lui la fece quasi cadere. Solly gli correva al fianco, lasciando che la tenesse per il braccio. Arrivarono senza preavviso sotto la sua porta, ed entrarono in casa dopo che lui aveva aperto il cancello con una parola. Come aveva fatto? «Che significa?» chiese lei, liberandosi facilmente e massaggiandosi il braccio dove la morsa dell'uomo le aveva fatto venire dei lividi.
Adirata, Solly scorse l'ultimo guizzo di un sorriso esaltato sul viso dell'uomo. Respirando a fatica lui le chiese, «È ferita?»
«Ferita? Sì, dalle tue strapazzate. Cosa pensavi di fare?»
«Stavo tenendo quel tipo lontano da lei.»
«Quale tipo?»
Lui non rispose.
«Quello che mi ha chiamato? Forse voleva parlarmi.»
Dopo un attimo di esitazione, il maggiore disse, «È possibile. Era nell'ombra, ho pensato che potesse essere armato. Devo uscire a cercare San Ubattat. Per favore, tenga la porta sbarrata finché non torno». Era già fuori dalla porta quando diede quell'ordine, non gli venne affatto in mente che lei avrebbe potuto non obbedire, eppure Solly obbedì, furibonda. Pensava forse che non fosse in grado di badare a se stessa, che avesse bisogno che lui interferisse nella sua vita privata andando in giro a prendere a calci gli schiavi per "proteggerla"? Forse era ora che si accorgesse di cos'era una caduta aiji. Lui era forte e veloce, ma non era molto allenato. Questo tipo di interferenza pasticciona era intollerabile, veramente intollerabile. Le sarebbe toccato andare a protestare all'ambasciata un'altra volta.
Non appena lui tornò con un San nervoso e imbarazzato al guinzaglio, lei gli disse, «Hai aperto la mia porta con una parola d'ordine. Io non sono stata informata che tu avessi il diritto di entrare giorno e notte».
Lui era tornato al suo grigiore militare. «Nossignore,» disse.
«Non farlo più. Non devi mai più mettermi le mani addosso! Ti avverto che, in caso contrario, ti farò male. Se qualcosa ti preoccupa, dimmi che cos'è e io risponderò come ritengo opportuno. Ora, per favore, vattene.»
«Con piacere, signora,» disse lui. Poi si girò e marciò fuori dalla porta.
«Oh, signora, oh, Nunzio,» disse San. «C'era una persona pericolosa, veramente pericolosa, sono veramente dispiaciuto, è vergognoso,» e continuò a balbettare. Lei finalmente lo convinse a dire chi pensava fosse questa persona, e cioè un dissidente religioso, uno dei vecchi credenti della religione originale del Gatay, che voleva cacciar via e ammazzare tutti gli stranieri e i miscredenti. «Uno schiavo?» chiese lei con interesse, al che lui parve scioccato. «Oh, no, no, una persona vera, un uomo… più che altro un debosciato, un fanatico miscredente! Uomini-coltello, si chiamano fra di loro. Ma è un uomo, signora… Nunzio, un uomo senza dubbio.»
La sola idea che lei potesse pensare che una proprietà la potesse toccare lo turbava quasi quanto il tentativo di aggressione, se tale si poteva considerare.
Mentre rifletteva, Solly cominciò a chiedersi se, dal momento che aveva rimesso il maggiore in riga a teatro, lui non avesse trovato una scusa per mettere lei al suo posto "proteggendola". Be', se ci avesse provato un'altra volta, si sarebbe trovato a testa in giù contro il muro di fronte.
«Rewe!» chiamò. La schiava apparve all'istante come sempre. «Uno degli attori sta per arrivare qua. Potresti farci un po' di tè o qualcosa del genere?» Rewe sorrise, disse di sì, e scomparve. Qualcuno bussò alla porta. Il maggiore aprì (doveva stare di guardia all'esterno) e Batikam entrò.