Teyeo si scervellò sulle parole, riflettendoci in continuazione, conscio della propria stupidità di fronte a questo tipo di finezze, ai retroscena del labirinto della politica. Alla fine cancellò il messaggio e sbadigliò perché era tardi. Fece il bagno, si sdraiò nel letto, spense la luce e bisbigliò, «Kamye, fa' che riesca a tener fede con coraggio alla sola cosa nobile che mi resta!» e dormì come un sasso.
Il makil tornò a casa del Nunzio tutte le sere dopo il teatro. Teyeo cercava di ripetersi che non c'era niente di sbagliato in ciò. Lui stesso aveva passato notti intere con i makil nei bei giorni prima della guerra. Il sesso artistico, esperto, faceva parte del loro lavoro. Sapeva, per sentito dire, che le donne abbienti di città spesso li pagavano per sopperire alle deficienze dei mariti. Ma anche quelle donne lo facevano discretamente, in segreto, non in modo così volgare, senza pudore e decenza, facendosi beffe del codice morale, come se lei avesse il diritto di fare quello che voleva ovunque e sempre. Naturalmente Batikam agiva in perfetto accordo con il Nunzio, approfittava della sua infatuazione, prendendo in giro gli abitanti del Gatay, Teyeo… e lei stessa, anche se l'inviato non lo sapeva. Che grande opportunità per una proprietà di farsi beffe di tutti i possidenti in una volta sola.
Guardando Batikam, Teyeo era sicuro che fosse un membro dell'Hame. Questo sbeffeggiamento era molto sottile, non cercava di disonorare il Nunzio. Infatti la discrezione di Batikam era molto più grande di quella della donna, perché cercava di impedirle di disonorarsi da sola. Il makil ricambiava la fredda cortesia di Teyeo, ma una o due volte i loro occhi si incrociarono, e una breve comprensione involontaria passò fra di loro, fraterna, ironica.
Era prevista una celebrazione pubblica in osservanza della festa tualita del Perdono, alla quale il Nunzio fu invitato con insistenza dal re e dal consiglio. Lei veniva messa in mostra in molti eventi del genere. Teyeo non aveva opinioni al riguardo, si preoccupava solo a provvedere alla sua sicurezza in mezzo a una folla eccitata per la festa, finché San gli disse che il giorno della ricorrenza era la festa comandata più importante della vecchia religione del Gatay, e che i vecchi credenti risentivano fortemente l'imposizione dei riti stranieri sopra i propri. L'ometto sembrava genuinamente preoccupato. Teyeo si preoccupò anche lui quando il giorno dopo San fu sostituito improvvisamente da un uomo più anziano che parlava solo in gatayano, e che era incapace di spiegare cosa fosse successo a San Ubattat. «Altri doveri, altri doveri chiamare,» disse quello in un voedeano molto rozzo, sorridendo e inchinandosi. «Tempo di grandi gioie, eh? Gioie chiamare a doveri.»
Durante i giorni che precedettero la festa, in città si diffuse una certa tensione. Su tutti i muri erano comparsi dei graffiti con i simboli della vecchia religione, un tempio tualita fu profanato, dopodiché la guardia reale invase massicciamente le strade. Teyeo andò al palazzo a chiedere di propria iniziativa che all'inviato non fosse richiesto di apparire in pubblico durante una cerimonia che "con molta probabilità sarebbe stata disturbata da dimostrazioni inappropriate". Fu fatto entrare e trattato da un ufficiale di corte con un misto di insolenza sdegnosa, cenni conniventi e strizzate d'occhio che lo misero veramente a disagio. Quella notte, lasciò quattro uomini di guardia di fronte alla casa dell'inviato. Tornando al suo alloggio, in una piccola caserma in fondo alla strada che era stata ceduta alla guardia dell'ambasciata, trovò la finestra della sua stanza aperta e un pezzo di carta scritto nella sua lingua, sul tavolo: La f del Perd è pronta per un assassisnio.
La mattina successiva raggiunse la casa dell'inviato di buon'ora, e chiese alla sua proprietà di dirle che doveva parlarle. Solly uscì dalla stanza da letto coprendosi il corpo nudo con un drappo bianco. Batikam la seguì mezzo svestito, ancora assonnato, e divertito. Teyeo gli lanciò un'occhiata che gli intimava di andarsene, che il makil accolse con un sorriso superiore, sereno, mormorando alla donna, «Vado a fare colazione. Rewe, hai qualcosa da mangiare?» Poi seguì la schiava fuori dalla stanza. Teyeo affrontò direttamente il Nunzio, tirando fuori il pezzo di carta.
«Ho ricevuto questo ieri sera, signora,» disse. «Devo chiederle di non presenziare alla festa di domani.» Lei studiò il foglio, lesse lo scritto e sbadigliò. «Di chi è?»
«Non lo so, signora.»
«Cosa vuol dire assassisnio? Assassinio? Non sanno neanche scriverlo correttamente?»
Dopo un istante di pausa, lui disse, «Abbiamo un certo numero di altre indicazioni… sufficienti perché io le chieda…»
«Di non presenziare alla festa del Perdono, sì, ti ho sentito.» Si avvicinò a uno sgabello vicino alla finestra. Nel sedersi, la vestaglia si aprì, scoprendole le gambe. I nudi piedi scuri erano piccoli e agili, le piante rosa, le dita piccole e regolari. Teyeo si mise a fissare l'aria dietro la testa della donna. Lei rigirò il pezzo di carta fra le dita. «Se pensi che sia pericoloso, rega, portati dietro una guardia o due,» disse con un vago tono di disprezzo. «Devo andarci assolutamente. Lo sai, il re l'ha richiesto espressamente. Devo accendere il grande fuoco e cose del genere. Una delle poche cose che le donne possono fare in pubblico in questo posto… Non posso tirarmi indietro.» Levò in alto il foglio, e poco dopo lui si avvicinò abbastanza per toglierglielo di mano. Lei lo guardò sorridendo. Quando lo sconfiggeva, gli rivolgeva sempre un sorriso. «Chi pensi che voglia farmi saltare in aria? I Patrioti?»
«O i Vecchi Credenti, signora. Domani è una delle loro festività.»
«I tuoi Tualiti gliel'hanno tolta. Be', non possono dar la colpa all'Ekumene, no?»
«Penso ci sia qualche possibilità che il governo permetta atti di violenza per avere la scusa per un contrattacco, signora.»
Lei stava per rispondere con noncuranza, poi si rese conto di quello che lui intendeva dire e aggrottò le sopracciglia. «Pensi che il consiglio stia cercando di fregarmi? Che prove hai?»
Dopo un momento di pausa, Teyeo le disse, «Molto poche, signora. San Ubattat…»
«San è malato. Quel vecchio che ci hanno mandato non serve a molto, ma è ben poco pericoloso. È tutto qui?» Visto che lui non rispondeva, Solly continuò, «Finché non hai delle vere prove, rega, non interferire nei miei impegni. La tua paranoia militaristica non è accettabile quando si estende alla gente con cui ho a che fare quaggiù. Controllati, per favore, mi aspetto che ci siano una guardia o due in più domani, e mi basta».
«Sissignore,» disse lui, e uscì. Gli fischiavano le orecchie per la rabbia. Gli venne in mente che la nuova guida aveva detto che San Ubattat non era potuto venire per certi doveri religiosi, non perché era malato. Non si girò. A cosa serviva? «Stai di guardia per un'ora o due, va bene, Seyem?» disse alla guardia al cancello, e risalì a grandi passi la strada, cercando di allontanarsi da lei, dalle sue cosce brune e soffici, e dalle piante rosa dei suoi piedi, e dalla sua stupida voce insolente da puttana che gli dava degli ordini. Cercò di farsi distrarre dall'aria fredda, dalla luce per le strade, dalle vie a gradoni scintillanti per gli stendardi della festa, dal luccichio delle grandi montagne, dal clamore dei mercatini. Ma mentre camminava vedeva solo la sua stessa ombra cadergli davanti come un coltello fra le pietre, conscia della futilità della sua esistenza.