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«Il veot sembrava preoccupato,» disse Batikam con la sua voce vellutata, e Solly rise, mentre infilzava un frutto dal piatto e se lo ficcava in bocca.

«Sono pronta per la colazione, adesso, Rewe,» chiamò Solly, e si sedette di fronte a Batikam. «Ho fame! Quello stava facendo una delle sue solite scenate fallocratiche. Non mi ha salvato da niente, in questi ultimi tempi. È la sua sola funzione, dopotutto. Così deve inventarsi delle occasioni. Vorrei tanto che stesse lontano da me. È così bello non avere il povero vecchio San intorno come una specie di piattola. Se solo riuscissi a sbarazzarmi anche del maggiore!»

«È un uomo d'onore,» disse il makil. Il suo tono non sembrava affatto ironico.

«Come fa un proprietario di schiavi a essere un uomo d'onore?»

Batikam la guardò coi suoi grandi occhi scuri. Lei non riusciva a leggere negli occhi della gente di Werel, belli com'erano, colmi di buio.

«I rappresentanti della gerarchia maschile blaterano di continuo del loro onore prezioso,» proseguì lei. «E dell'onore delle loro donne, naturalmente.»

«L'onore è un gran privilegio,» disse Batikam. «Glielo invidio. E invidio anche lui.»

«Oh, al diavolo tutta quella falsa dignità, è solo piscia per marcare il tuo territorio. La sola cosa che gli devi invidiare, Batikam, è la sua libertà.»

Lui sorrise. «Tu sei la sola persona che abbia mai conosciuto che non fosse né posseduta né possidente. Questa sì che è libertà. Mi chiedo se tu te ne renda conto.»

«Naturale che me ne rendo conto,» disse Solly. Lui sorrise, e continuò a mangiare, ma c'era stato qualcosa nella sua voce che lei non aveva mai sentito prima. Commossa e un po' turbata, poco dopo gli disse, «Te ne andrai presto».

«Mi leggi nel pensiero. Sì, fra dieci giorni la compagnia va in tournée per i Quaranta Stati.»

«Oh, Batikam, mi mancherai tanto! Sei l'unica persona di qui con cui possa parlare… a parte il sesso…»

«L'abbiamo mai fatto?»

«Non spesso,» fece lei ridendo, ma con voce un po' turbata. Lui le tese la mano, lei gli andò incontro e gli si sedette in grembo, con la vestaglia che si apriva. «Piccoli e dolci seni da diplomatico,» disse il makil, sfiorandola con le labbra e accarezzandola, «dolce pancino da diplomatico…» Rewe entrò con un vassoio e lo appoggiò piano. «Mangia la tua colazione, piccolo Nunzio,» disse Batikam, e lei si liberò dal suo abbraccio per tornare sorridente alla sua sedia.

«Visto che sei libera, sta a te essere onesta,» disse lui, sbucciando meticolosamente un frutto. «Non essere troppo dura con quelli di noi che non lo sono e non possono esserlo.» Tagliò un pezzetto e la imboccò dall'altra parte del tavolo. «È stato un assaggio di libertà conoscerti,» disse. «Un accenno, un'ombra…»

«Nel giro di pochi anni al massimo, Batikam, tu sarai libero. Questa intera struttura idiota di padroni e schiavi collasserà completamente appena Werel entrerà nell'Ekumene.»

«Se avverrà.»

«Certo che avverrà.»

Lui si strinse nelle spalle. «La mia casa è Yeowe,» asserì.

Lei lo guardò fisso, confusa. «Tu vieni da Yeowe?»

«Non ci sono mai stato,» disse lui. «Probabilmente non ci andrò mai. Cosa se ne fanno quelli dei makil? Ma è la mia patria, quella è la mia gente, quella è la mia libertà. Quand'è che capirai?» Il suo pugno era serrato, e l'aprì con un gesto leggero, come se lasciasse cadere qualcosa. Poi sorrise e ritornò alla sua colazione. «Devo tornare a teatro,» disse. «Dobbiamo fare le prove di una rappresentazione per il giorno del Perdono.»

Lei perse tutto il giorno a corte. Aveva fatto ripetuti tentativi per ottenere il permesso di visitare le miniere e le immense fattorie del governo dall'altra parte delle montagne, da cui derivava il benessere del Gatay. Era stata ostacolata con altrettanta insistenza. Dal protocollo e dalla burocrazia del governo, aveva pensato dapprima, dalla loro scarsa volontà di lasciare che un diplomatico facesse qualsiasi cosa tranne andare in giro a presenziare a eventi inutili. Ma alcuni uomini d'affari avevano lasciato trapelare, a proposito delle condizioni di miniere e fattorie, qualcosa che le aveva fatto pensare che quei luoghi potessero nascondere un tipo di schiavitù molto più brutale di quella riscontrabile nella capitale. Quel giorno non era andata da nessuna parte, nell'attesa di appuntamenti che non erano stati rispettati. Il vecchio che aveva preso il posto di San fraintendeva la maggior parte di quello che lei diceva in lingua del Voe Deo, e anche quando Solly provava a parlare in gatayano, lui non ci capiva nulla, vuoi per stupidità vuoi per cattiva volontà. Il maggiore, per fortuna, restò via la maggior parte della mattina, sostituito da uno dei suoi soldati. Ma poi comparve a corte, rigido, silenzioso e con la mascella protesa, e rimase con lei fino a quando, stremata, decise di tornare a casa a farsi un bagno.

Batikam arrivò tardi, quella notte. Nel mezzo di uno degli elaborati giochi di fantasia con tanto di scambi di ruolo che aveva imparato da lui e che aveva sempre trovato così eccitanti, le carezze del makil diventarono sempre più lente, soffici come piume, tanto che lei tremò di desiderio insoddisfatto e, premendo il suo corpo contro quello dell'uomo, si accorse che si era addormentato. «Svegliati,» gli disse ridendo ma con tono gelido, e lo scosse un po'. Gli occhi scuri si spalancarono, confusi, pieni di timore.

«Mi dispiace,» gli disse subito, «torna a dormire, sei stanco. No no, è tutto a posto, è tardi.» Ma lui riprese quello che lei ora era costretta a considerare un lavoro, nonostante la sua tenerezza e abilità.

La mattina a colazione gli disse, «Mi vedi come un tuo pari, Batikam?»

Lui era stanco e sembrava più vecchio del solito. Non sorrise. Dopo un po' disse, «Cosa vuoi che ti dica?»

«Dì sì.»

«Sì,» rispose lui con calma.

«Non ti fidi di me,» fece lei amareggiata

Dopo un po' lui disse, «Oggi è il Giorno del Perdono. Nostra Signora di Tual venne agli uomini di Asdok, che avevano sguinzagliato i gatti da caccia dietro ai suoi seguaci. Lei giunse fra di loro cavalcando un grande gatto da caccia con la lingua di fuoco ed essi caddero in preda al terrore, ma lei li benedisse perdonandoli.» Il tono di voce e i gesti delle mani le facevano intravedere la storia mentre lui la raccontava. «Perdonami,» le disse.

«Tu non hai bisogno di alcun perdono.»

«Oh, tutti ne abbiamo bisogno, è per questo che noi Kamyiti ricorriamo a Nostra Signora di Tual, certe volte. Quando abbiamo bisogno di lei. Così, oggi sarai tu la Nostra Signora di Tual, nel rito?»

«Tutto quel che devo fare è accendere un fuoco, almeno così mi hanno detto,» replicò lei, ansiosa, e lui rise. Mentre il makil se ne andava, Solly gli disse che sarebbe andata a teatro a vederlo, la sera, dopo la festa.

La pista per le corse di cavalli, l'unica area piatta di una certa grandezza vicino alla città, era gremita di venditori urlanti e di stendardi che svolazzavano. Le auto reali passarono proprio in mezzo alla folla, che si divise come l'acqua e si richiuse dopo il passaggio. Per i notabili e i possidenti erano state erette alcune gradinate dall'aspetto instabile, con una zona protetta da tende per le signore. Lei vide un'auto sfrecciare verso gli spalti. Una figura avvolta in un tessuto rosso fu scacciata in fretta e furia dalle tende, e sparì. C'erano dei buchi da cui le signore potessero guardare la cerimonia? Scorse delle donne nella folla, ma erano solo schiave, proprietà. Capì anche che sarebbe stata nascosta fino al momento della cerimonia. Una tenda rossa l'aspettava di fianco alle gradinate, non lontana dalla zona coperta, dove i preti stavano salmodiando. Fu fatta scendere dall'auto e portata velocemente nella tenda da gentiluomini ossequiosi e determinati.