Le schiave nella tenda le offrirono tè, dolci, specchi, trucco e balsamo per capelli, e l'aiutarono a indossare il pomposo vestito di tessuto rosso e giallo, il suo costume per la breve impersonificazione di Nostra Signora di Tual. Nessuno le aveva detto chiaramente quello che doveva fare, e alle sue domande le donne risposero, «I preti te lo mostreranno, Signora, tu vai con loro. Tu devi solo accendere il fuoco. È tutto pronto». Aveva l'impressione che non sapessero molto di più di quello che sapeva lei stessa. Erano tutte ragazze carine, schiave di corte, chiamate a far parte dello spettacolo, indifferenti alla religione. Conosceva il simbolismo del fuoco che doveva accendere. In esso gli errori e i peccati potevano essere respinti e bruciati, dimenticati. Era un'idea simpatica.
Là fuori i preti si stavano scatenando. Diede un'occhiata. C'erano in effetti dei buchi nella tenda. Vide che la folla si era infittita. Nessuno che non si trovasse sulle gradinate o vicino ai cordoni poteva vedere alcunché, ma tutti agitavano stendardi rossi e gialli, mangiavano frittelle e facevano festa mentre i preti continuavano a cantare. Alla destra del suo piccolo campo visivo disturbato notò un braccio familiare. Naturalmente era quello del maggiore. Non l'avevano lasciato salire nell'auto con lei, doveva essere furioso. Ma era arrivato sin lì, e si era piazzato di guardia. «Signora, Signora,» dicevano le damigelle di corte, «adesso arrivano i preti,» e le ronzarono intorno accertandosi che la sua acconciatura fosse a posto e che quelle gonne maledette avessero la piega giusta. La stavano ancora lisciando e aggiustando mentre usciva dalla tenda. Abbagliata dalla luce del giorno, sorridente, cercò di tenersi eretta e dignitosa, come si conveniva a una dea. Non voleva certo rovinare la cerimonia.
Due uomini con paramenti sacerdotali la stavano aspettando proprio fuori dalla porta della tenda. Subito l'afferrarono per i gomiti, dicendo, «Da questa parte, da questa parte, Signora». Evidentemente non doveva cercare di capire quello che doveva fare. Senza dubbio consideravano le donne esseri incapaci di pensare, ma in quelle circostanze era un sollievo. I preti si affrettarono, più veloci di quanto lei potesse camminare con quella gonna attillata. Adesso erano giunti dietro le gradinate. Ma l'entrata non era dall'altra parte? Una macchina stava arrivando verso di loro facendo spostare la poca gente che le si parava davanti. Qualcuno gridò, i preti cominciarono improvvisamente a spingerla con violenza, cercando di mettersi a correre. Uno di loro strillò e le lasciò il braccio, essendo stato gettato a terra da un'ombra volante che l'aveva colpito all'improvviso. Lei si ritrovò nel mezzo di una rissa, incapace di liberare il braccio dalla morsa, con le gambe imprigionate nella gonna, e sentì un rumore, un rumore fortissimo che la colpì alla testa e gliela fece piegare. Non riusciva più a sentire né a vedere nulla, mentre si dibatteva accecata. Fu spinta a faccia in giù in un posto buio, con il viso premuto contro una soffocante oscurità scabrosa e le braccia bloccate dietro la schiena.
Una macchina in movimento. Passò molto tempo. Uomini che parlavano a bassa voce. La lingua del Gatay. Riusciva a malapena a respirare. Lei non lottò, non aveva senso. Le avevano legato braccia e gambe, coperta la testa con un sacco. Dopo un lungo intervallo fu sollevata come un cadavere, trasportata velocemente al piano di sotto e depositata su un divano o su un letto, con la stessa fretta disperata ma senza durezza. Lei rimase immobile. Gli uomini parlavano, quasi sottovoce. Non capiva nulla. In testa sentiva ancora quel rumore fortissimo. Era un rumore, vero? Era stata colpita? Si sentiva sorda come se stesse dietro un muro di cotone. Il tessuto del sacco continuava a incastrarsi in bocca, attaccandosi alle narici mentre cercava di respirare.
Glielo tolsero. Un uomo, chinandosi su di lei, la girò in modo da poterle slegare le braccia, e poi le gambe, mormorando nella lingua del Voe Deo, «Non aver paura, Signora. Non vogliamo farti del male». Quindi arretrò velocemente. Erano in quattro o cinque, era difficile vedere, c'era poca luce. «Aspettare qui,» disse un altro. «Tutto bene. Solo per farti contenta.» Cercò di mettersi seduta, ma quel gesto le fece venire le vertigini. Quando la testa smise di girare erano spariti tutti, come per magia. Solo per farla contenta.
Era una stanza piccola, molto alta, muri di mattoni scuri, aria polverosa. La luce veniva da una placca bio-luminescente attaccata al soffitto, un debole bagliore senza ombra, forse sufficiente per occhi wereliani. Solo per farmi contenta. Sono stata rapita, pensa un po'. Cercò di inventariare quello che aveva intorno: il grosso materasso su cui giaceva; una coperta; una porta; una piccola caraffa e una tazza; un buco di scarico, o qualcosa del genere, là nell'angolo. Quando gettò le gambe giù dal materasso, i piedi colpirono qualcosa sul pavimento. Si tirò su e scrutò la massa buia, il corpo lì disteso. Un uomo. L'uniforme scura, la pelle così nera che non riusciva a scorgerne i lineamenti. Ma lo riconobbe. Anche lì, il maggiore era con lei.
Si alzò vacillante, cercando di investigare sul buco di scarico, che era semplicemente quello che pensava: un buco bordato di cemento aperto nel pavimento, che puzzava di sostanze chimiche, leggermente ripugnante. La testa le doleva, e si risedette sul letto, per massaggiarsi le braccia e le caviglie, per rallentare la tensione e il dolore, toccandosi come per assicurarsi che fosse tutto vero, ritmica e metodica. Mi hanno rapita, pensa un po'. Solo per farmi contenta. E a lui che è successo?
Pensando di colpo che potesse essere morto, rabbrividì e rimase immobile.
Dopo un po' si abbassò lentamente sul maggiore cercando di vedergli il viso, di ascoltare. Di nuovo si sentì come sorda. Non udiva nessun respiro. Si allungò tremante, con la nausea, e appoggiò il palmo della mano sulla faccia dell'uomo. Era fredda, molto fredda. Ma il calore tornò a soffiarle tra le dita, di nuovo. Si accovacciò sul materasso a studiare il maggiore. Giaceva assolutamente immobile, ma quando gli mise la mano sul petto sentì il lento battito del cuore.
«Teyeo,» disse in un bisbiglio. La sua voce non sarebbe andata oltre il bisbiglio.
Gli mise di nuovo la mano sul petto. Voleva sentire quel battito regolare, lento, il debole calore così rassicurante. Solo per farla contenta.
Che altro avevano detto? Di aspettare. Sì, sembrava fosse quello il programma. Forse poteva dormire, e al risveglio sarebbe arrivato il riscatto, o qualunque altra cosa volevano.
Si svegliò con in testa il pensiero che aveva ancora l'orologio, e dopo aver studiato mezza addormentata il piccolo quadrante d'argento, decise che aveva dormito tre ore. Era ancora il giorno della festa, troppo presto per il riscatto, probabilmente. E non sarebbe potuta andare a teatro a vedere i makil, quella sera. I suoi occhi si erano abituati alla luce bassa, così riuscì a vedere che c'era del sangue secco sulla testa dell'uomo. Tastando, trovò un bozzo caldo come un pugno sopra la tempia. Le sue dita si macchiarono. Era stato colpito alla testa. Doveva essere stato lui a lanciarsi contro il prete, il falso prete. Tutto quello che riusciva a ricordare era un'ombra volante, un colpo duro, e un uff! che pareva un attacco con tecnica aiji. Poi c'era stato quel rumore assordante che aveva confuso tutto. Fece schioccare la lingua, batté contro il muro per controllare l'udito. Sembrava che fosse a posto. Il muro di cotone era sparito. Forse era stata colpita anche lei. Si toccò la testa, ma non trovò dei bernoccoli. Il maggiore doveva avere una commozione cerebrale, se era ancora privo di sensi dopo tre ore. Brutta? Quando sarebbero tornati quegli uomini?