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Appena si alzò quasi cadde per terra, intrappolata in quella dannata gonna da dea. Se solo avesse avuto indosso i suoi vestiti, invece di quell'abito sfarzoso, tre capi impalpabili che per infilarseli ci voleva l'aiuto delle schiave. Si tolse la gonna e usò lo scialle per improvvisare un gonnellino aderente che le arrivava alle ginocchia. Non faceva affatto caldo in quello scantinato, o qualsiasi cosa fosse. Era umido e assai freddo. Camminò su e giù, quattro passi e si girava, quattro passi e si girava, per fare un po' di riscaldamento. Avevano buttato l'uomo sul pavimento. Quant'era freddo? Poteva essere una commozione cerebrale? Chi subisce un trauma dev'essere tenuto al caldo. Esitò a lungo, incapace di reagire alle proprie indecisioni, al fatto di non sapere cosa fare. Doveva cercare di sollevarlo sul materasso? Era forse meglio non muoverlo? E dove diavolo erano quegli uomini? Stava per morire?

Si chinò su di lui e disse decisa, «Rega! Teyeo!» e dopo un po' il maggiore cominciò a respirare.

«Svegliati!» In quel momento si ricordò, o almeno credette di ricordare, che era importante non lasciare che le persone con una commozione cerebrale cadessero in coma. A parte che lui c'era già caduto.

L'uomo trattenne di nuovo il respiro e il suo viso cambiò, uscendo da quella immobilità rigida, gli occhi si aprirono e si chiusero, annebbiati. «Oh, Kamye,» disse a bassa voce.

Lei non poteva credere a quanto era felice di rivederlo. Solo per farla contenta. Era chiaro che il maggiore aveva un mal di testa accecante, e lui ammise anche di vederci doppio. Lei lo aiutò a tirarsi su e lo coprì con la coperta. Lui non fece domande, giacque muto, scivolando subito nel sonno. Una volta che fu sistemato, lei ricominciò coi suoi esercizi, proseguendo per circa un'ora. Guardò l'orologio. Erano passate due ore dello stesso giorno, il giorno della festa del Perdono. Non era ancora sera. Quando sarebbero arrivati quegli uomini?

Arrivarono la mattina presto, dopo una notte infinita, che fu uguale al pomeriggio e al mattino. La porta di metallo venne aperta con fragore e uno di loro entrò con un vassoio, mentre altri due restarono vicino all'entrata con le armi alzate e puntate. Non c'era posto dove mettere il vassoio tranne che per terra, così il primo uomo lo spinse verso Solly, dicendo, «Mi dispiace, Signora!» e se ne andò. La porta si chiuse con fragore, i chiavistelli scattarono e lei rimase pietrificata, con il vassoio in mano. «Aspettate!» disse.

Il maggiore si era svegliato e si stava guardando intorno intontito. Trovandosi prigioniera in quel posto con lui, Solly aveva dimenticato il suo soprannome, non pensava più a lui come al maggiore, comunque evitò di chiamarlo col nome vero. «Ecco la colazione, immagino,» disse, e si sedette sul bordo del materasso. Sopra il vassoio di vimini era stato gettato un panno, sotto il quale trovò una pila di panini del Gatay ripieni di carne e verdure, un po' di frutta e una caraffa di lega leggera ornata di perline. «Colazione, pranzo e cena, forse,» disse lei. «Merda! Oh, be'. Non sembra male. Ce la fai a mangiare? Ce la fai a sederti?»

Lui si sforzò di sedersi con la schiena contro il muro, poi chiuse gli occhi.

«Ci vedi ancora doppio?»

Lui fece un piccolo cenno di assenso.

«Hai sete?»

Mormorio di assenso.

«Tieni,» disse, e gli passò la tazza. Reggendola con entrambe le mani, lui se la portò alla bocca e bevve l'acqua lentamente, un sorso alla volta. Nel frattempo lei divorò tre panini di fila, poi s'impose di fermarsi e mangiò la frutta. «Vuoi mangiare anche tu un po' di frutta?» gli chiese, sentendosi in colpa. Lui non rispose. Solly pensava a Batikam che l'aveva imboccata con le fette di frutta il giorno prima, a colazione. Sembrava cent'anni fa.

Il cibo nello stomaco le fece venire la nausea. Prese la tazza dalle mani rilassate dell'uomo, che si era addormentato di nuovo, e si versò dell'acqua. Bevve lentamente, un sorso alla volta.

Quando si sentì meglio, andò alla porta e ne controllò i cardini, la serratura e la superficie. Palpò e scrutò le pareti di mattoni, il pavimento di cemento, cercando chissà che, qualcosa con cui scappare, qualcosa… Avrebbe dovuto fare esercizio. Si sforzò di muoversi, ma il malessere tornò e con esso l'apatia. Tornò a sedersi sul materasso. Dopo un po' s'accorse che stava piangendo. Dopo un po' scoprì di avere dormito. Doveva pisciare. Si accucciò sul buco e ascoltò l'urina che ci cadeva dentro. Non c'era niente con cui pulirsi. Tornò a letto e si sedette allungando i muscoli, tenendosi le caviglie fra le mani. C'era un silenzio totale.

Si girò a guardare l'uomo. Lui la stava osservando, poi si voltò dall'altra parte. Giaceva ancora mezzo puntellato contro il muro, scomodo ma rilassato.

«Hai sete?» gli chiese.

«Grazie,» disse lui. In quel luogo, dove niente era familiare e il tempo era separato dal passato, la sua voce dolce e leggera era benvenuta, nella sua familiarità. Lei gli versò una tazza piena e gliela porse. Lui riuscì a sedersi più comodamente per bere. «Grazie,» bisbigliò ancora, restituendole la tazza.

«Come va la testa?»

Lui si portò la mano al bernoccolo, fece una smorfia e si lasciò andare sulla schiena.

«Uno di loro aveva un bastone,» gli disse, vedendolo come in un déjà vu, nel guazzabuglio dei suoi ricordi. «Un bastone pastorale. Tu hai assalito l'altro.»

«Mi hanno preso la pistola,» disse lui. «La festa.» Teneva gli occhi chiusi.

«Sono rimasta intrappolata in quei dannati vestiti, non ti potevo aiutare. Senti, c'è stato un rumore? Un'esplosione?»

«Sì, forse uno stratagemma per distrarre l'attenzione.»

«Chi pensi che siano questi ragazzi?»

«Rivoluzionari. Oppure…»

«Hai detto che pensavi fosse coinvolto il governo del Gatay.»

«Non lo so,» mormorò lui.

«Avevi ragione, e io avevo torto. Mi dispiace,» disse lei con una sensazione virtuosa al pensiero di chiedere scusa.

Lui mosse la mano lentamente, come per dire "non importa".

«Ci vedi ancora doppio?»

Lui non rispose. Stava di nuovo per perdere i sensi.

Solly era in piedi, cercando di ricordarsi gli esercizi di respirazione Selish, quando la porta si aprì rumorosamente, ed entrarono gli stessi tre uomini, due di loro armati, tutti giovani di pelle scura, capelli corti, molto nervosi. Il capo appoggiò un altro vassoio per terra. Senza la minima premeditazione, Solly gli pestò la mano con tutto il peso. «Aspettate!» disse. Fissò i volti e le canne delle pistole degli altri due. «Aspettate un momento, ascoltate! Lui ha una ferita alla testa, abbiamo bisogno di un dottore, abbiamo bisogno di altra acqua, non riesco neanche a pulirgli la ferita, non c'è carta igienica. Chi diavolo siete?»

Quello a cui aveva pestato stava urlando. «Si sposta, Signora! Spostare dalla mia mano!» Ma gli altri l'avevano sentita. Lei sollevò il piede e si spostò mentre lui si alzava velocemente, ritornando accanto ai suoi compagni armati. «Va bene, Signora. Ci dispiace creare problemi,» disse con le lacrime agli occhi, cullandosi la mano. «Siamo Patrioti. Tu mandare nostro messaggio a quell'impostore del re, e nessuno si farà male. Va bene?» Continuò ad arretrare, poi uno degli uomini con la pistola chiuse la porta. Crash!

Lei, dopo un respiro profondo, si girò. Teyeo la stava guardando. «È stato molto pericoloso,» disse con un mezzo sorriso.

«Lo so,» fece lei, respirando a fatica. «E anche stupido. Non riesco a controllarmi. Mi sento a pezzi, ma buttano dentro la roba e scappano, accidenti. Ci serve dell'acqua!» Era in lacrime, come le capitava sempre dopo una crisi violenta o una lite. «Vediamo cosa ci hanno portato questa volta.» Sollevò il vassoio sul materasso. Come l'altro, in una finzione ridicola di servizio alberghiero o di casa con schiavi, era coperto da un tovagliolo. «Tutte le comodità!» mormorò. Sotto il tovagliolo trovò un mucchio di pasticcini, uno specchietto di plastica, un pettine, un piccolo contenitore con qualcosa che puzzava come fiori marciti, e una scatola di quelli che identificò dopo un attimo come assorbenti gatayani.