«Chi?» disse lui, alquanto stizzito.
Una pausa.
«Pensi a…»
«No,» disse lui. «Stai ferma.»
Una lunga pausa, forse un quarto d'ora.
«Teyeo, non ce la faccio, mi brucia, la mia mente brucia. Da quanto tempo lo fai?»
Una pausa e una risposta riluttante. «Fin da quando avevo due anni.»
Lui sciolse la sua posa immobile e del tutto rilassata, piegò la testa per stirare il collo e i muscoli delle spalle. Lei lo stette a guardare.
«Continuo a pensare alla vita, a vivere a lungo,» disse Solly. «Non voglio dire solo essere vivi per molto tempo, accidenti. Io sono viva da circa mille e cento anni. Cosa vuol dire? Nulla. Cioè, c'è qualcosa che fa la differenza nel pensare a una vita lunga, come avere dei figli, anche solo il pensare di avere dei figli. È come se cambiasse un equilibrio. Mi fa ridere il fatto di continuare a pensare a queste cose proprio adesso che le mie possibilità di avere una vita lunga si fanno più scarse.»
Lui non disse niente. Era capace di non dire niente in un modo che le permetteva di continuare a parlare. Era uno degli uomini meno loquaci che avesse mai conosciuto. La maggior parte degli uomini parlava sempre. Anche lei era una gran chiacchierona. Teyeo era un tipo taciturno. Solly avrebbe voluto imparare la virtù del silenzio.
«È solo questione di pratica, vero?» gli chiese. «Solo starsene seduto là.»
Lui annuì.
«Anni e anni e anni di pratica. Dio mio, forse…»
«No, no,» disse lui, leggendole nel pensiero.
«Ma perché non fanno qualcosa? Cosa stanno aspettando? Sono già nove giorni.»
Sin dall'inizio, per un accordo non pianificato e non stipulato a parole, la stanza era stata divisa in due. La linea correva nel mezzo del materasso e fino al muro di fronte. La porta stava dalla parte di Solly, a sinistra, il cesso dalla parte di Teyeo, a destra. Ogni invasione dello spazio dell'altro veniva richiesta con un cenno quasi impercettibile e il permesso veniva dato allo stesso modo. Quando uno dei due usava il cesso, l'altro gli voltava le spalle con discrezione. Quando avevano abbastanza acqua per lavarsi, cosa piuttosto rara, vigeva lo stesso principio. La linea di demarcazione nel mezzo del materasso era assoluta. Le loro voci la oltrepassavano, e così i suoni e gli odori dei loro corpi. A volte lei sentiva il calore del compagno. La temperatura corporea del wereliano era più alta, e nell'aria umida stagnante sentiva quel calore che si irradiava mentre lui dormiva. Ma non varcavano mai la linea, neanche con un dito, neanche nel sonno più profondo.
Solly ci pensava, e trovava la cosa abbastanza divertente, a volte. In altri momenti le sembrava stupido e perverso. Non potevano ottenere entrambi un po' di calore umano? L'unica volta che lo aveva toccato era stato il primo giorno, quando lo aveva aiutato a salire sul materasso, e poi, appena avevano ottenuto abbastanza acqua, quando gli aveva pulito la ferita alla testa e pian piano aveva sciacquato il sangue raggrumato e puzzolente dai capelli servendosi del pettine, che dopotutto si era rivelato un oggetto utile, e di alcuni pezzi della gonna da dea, inesauribile fonte di bende e asciugamani. Poi, una volta che la testa era guarita, avevano fatto esercizi aiji tutti i giorni. L'aiji presentava una purezza rituale impersonale in quel suo sistema di prese e abbracci che era molto distante dal conforto di un essere umano. Per tutto il resto del tempo la presenza fisica di Teyeo era chiaramente, invariabilmente intoccabile.
Lui stava solo mantenendo, in circostanze incredibilmente difficili, la sua solita rigidità, la sua riservatezza. Non solo lui, ma anche Rewe. Tutti quanti, tutti tranne Batikam. Eppure, il cedimento istantaneo di Batikam al suo capriccio era stato davvero il vero contatto che lei cercava? Pensava alla paura nei suoi occhi quell'ultima notte. Non era riservatezza, ma costrizione.
Era la mentalità di una società di schiavi, schiavi e padroni intrappolati nella stessa trappola di autoprotezione e sfiducia radicale.
«Teyeo,» disse, «non capisco la schiavitù. E lasciami spiegare quello che voglio dire,» aggiunse, nonostante lui non avesse palesato nessun segno di volerla interrompere o contraddire, ma solo una cortese attenzione. «Voglio dire, capisco come un'istituzione sociale si possa costituire e come un individuo ne diventi semplicemente una parte. Non ti sto chiedendo perché non sei d'accordo con me nel considerare questa istituzione malvagia e priva di profitto. Non ti sto chiedendo di difenderla o di rinunciarci, sto solo cercando di capire cosa si prova a credere che due terzi degli esseri umani del tuo mondo siano di fatto, legalmente, una vostra proprietà. Anzi, cinque sesti, se includiamo le donne della vostra casta.»
Dopo un po' lui rispose, «La mia famiglia possiede circa venticinque proprietà».
«Non cavillare.»
Lui accettò il rimprovero.
«Mi sembra che voi escludiate il contatto umano. Non toccate gli schiavi, gli schiavi non vi toccano nel modo in cui gli umani dovrebbero toccarsi a vicenda. Dovete restare separati, sempre attenti a mantenere quella separazione. Perché non è una separazione naturale, è totalmente artificiale, creata dall'uomo. Io non riesco a distinguere possidenti e proprietà dall'aspetto fisico, e tu?»
«Quasi sempre.»
«Grazie a indizi culturali e di comportamento, vero?»
Dopo averci pensato su un po' Teyeo annuì.
«Voi siete della stessa specie, razza, popolo, esattamente uguali in tutto tranne una leggera differenza nel colore. Se tu fai crescere un bambino proprietà come un possidente, diventerebbe un possidente sotto ogni punto di vista e viceversa, quindi passi la vita mantenendo questa divisione tremenda che non esiste, e non capisco come faccia a non accorgerti di quanto sia tutto terribilmente inutile, e non voglio dire dal punto di vista economico.»
«Durante la guerra…» disse lui, e poi ci fu una lunga pausa. Nonostante Solly avesse molte altre cose da dire, aspettò incuriosita. «Io ero su Yeowe, sai, la guerra civile.»
È lì che ha raccolto tutti quei graffi e le cicatrici, pensò lei. Per quanto guardasse altrove con scrupolo, ormai le era impossibile non provare una certa familiarità col suo corpo snello di onice. Lei sapeva che nell'aiji lui era costretto a proteggere il braccio sinistro, a cui mancava una grossa parte di muscolo sopra il bicipite. «Gli schiavi delle colonie si ribellarono, questo lo sai. All'inizio solo alcuni, poi tutti, quasi tutti. A quel tempo noi dell'esercito eravamo tutti possidenti, non potevamo mandare soldati-proprietà, che avrebbero potuto disertare. Eravamo tutti veot e volontari, possidenti contro proprietà. Stavo combattendo i miei simili, lo compresi subito. Successivamente capii che stavo combattendo i miei superiori. Erano loro che ci avevano fatto perdere.»
«Ma quello…» disse Solly e si fermò. Non sapeva più cosa dire.
«Ci hanno fatto perdere dall'inizio alla fine,» proseguì lui, «soprattutto perché il mio governo non capiva che quelli potevano farcela, e che combattevano meglio e più strenuamente e con più intelligenza e coraggio di quanto non facessimo noi.»
«Perché stavano combattendo per la loro libertà!»
«Forse,» concesse lui, educatamente.
«E allora?»
«Ti volevo solo dire che rispetto la gente contro cui ho combattuto.»
«So così poco della guerra, del modo di combattere,» disse lei con un misto di pentimento e irritazione. «Anzi, niente in realtà. Ero su Kheakh, ma quella non era guerra. Era suicidio razziale, una carneficina di massa di un'intera biosfera. Credo ci sia differenza. Fu allora che l'Ekumene decise per la Convenzione sulle Armi. E lo sai perché? A causa di Kheakh e Orint che si distruggevano da soli. I Terrestri spingevano per la convenzione da secoli. Dopo che si erano quasi suicidati anche loro. Io sono mezza terrestre, i miei antenati andavano in giro per il loro pianeta ammazzandosi tra di loro. Per millenni. Erano padroni e schiavi. Anche loro, molti di loro. Ma non so se la convenzione sia stata una buona idea, se sia stata giusta. Chi siamo noi per dire a qualcuno cosa fare e cosa non fare? L'idea dell'Ekumene era di offrire una scappatoia. Di aprire la strada, non di sbarrarla.»