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Non sapevo niente di Yeowe. Era solo un astro di color verdemare che tramontava dopo il sole o che sorgeva prima, più luminoso della più piccola delle lune. Era solo un nome in una vecchia canzone che cantavamo al complesso:

Oh, oh, Yeowe,

nessuno mai più tornerà!

Non avevo idea di che cosa fosse una rivoluzione. Quando Erod mi spiegò che voleva dire che le proprietà di quel posto chiamato Yeowe stavano combattendo contro i loro possidenti, io non capii come delle proprietà potessero far questo. Fin dall'inizio era stato stabilito che ci fossero esseri superiori e inferiori, i signori e gli esseri umani, l'uomo e la donna, il possessore e il posseduto. Tutto il mio mondo era la tenuta di Shomeke, e si basava su queste fondamenta. Chi mai avrebbe desiderato capovolgerle? Saremmo rimasti tutti schiacciati sotto le rovine.

Non mi piaceva che Erod chiamasse noi proprietà servi, brutta parola che sminuiva il nostro valore. Decisi dentro di me che qui su Werel eravamo proprietà, mentre in quell'altro posto, la Colonia di Yeowe, c'erano i servi, servi indegni e indesiderabili. Per questo erano stati mandati là. Mi sembrava ovvio.

Da questo potete capire quanto fossi ignorante. Qualche volta la signora Tazeu ci aveva permesso di guardare insieme a lei i programmi sulla rete tridimensionale, ma seguiva soltanto gli sceneggiati e mai i notiziari. Non sapevo niente del mondo all'esterno della tenuta se non le cose che apprendevo da Erod, e che non riuscivo a capire.

Erod era contento che discutessimo con lui. Pensava che così facendo avremmo sviluppato una mentalità da esseri liberi. Geu era molto portato per questo. Faceva domande del tipo, «Ma se non ci fossero schiavi chi farebbe i lavori?» Erod aveva allora modo di dare risposte esaurienti. Gli brillavano gli occhi, la sua voce era persuasiva. Amavo molto stare a sentirlo mentre parlava con noi. Era bello, e belle erano le cose che diceva. Era come quando da piccola stavo ad ascoltare i vecchi del complesso "cantare il Verbo", recitare l'Arkamye.

Passavo i contraccettivi che mi dava la mia signora ad altre ragazze a cui servivano. La signora Tazeu aveva risvegliato la mia sessualità e mi aveva dato l'abitudine a essere usata sessualmente. Mi mancavano le sue carezze. Ma non sapevo come avvicinare qualcuna delle altre schiave, e loro avevano timore ad avvicinare me, dato che appartenevo al padroncino. Spesso, stando in compagnia di Erod, mentre lui parlava io lo bramavo nel mio corpo. Giacevo nel suo letto e sognavo che si chinasse su di me e facesse con me come la mia signora. Ma non mi toccò mai.

Anche Geu era un bel giovane, fine e aggraziato, di pelle piuttosto scura, e lo trovavo attraente. I suoi occhi non mi si staccavano mai di dosso. Ma non osò avvicinarmi, finché non gli rivelai che Erod non mi aveva mai toccato.

Infransi così la promessa fatta a Erod di non parlarne con nessuno. Ma non pensavo di essere tenuta a mantenere promesse, come non pensavo di esser tenuta a dire la verità. Onorare la parola data era cosa da padroni, non era roba per noi.

Dopodiché, Geu mi dava appuntamento nei sottotetti della Casa. Mi procurava scarso piacere. Non mi penetrava, pensando di dover salvaguardare la mia verginità a uso e consumo del nostro padrone. Mi faceva invece prendere il suo pene in bocca. Quando arrivava all'orgasmo si staccava da me, perché lo sperma dello schiavo non contaminasse la donna del padrone. Tale è il senso dell'onore dello schiavo.

A questo punto direte, disgustati, che la mia storia parla solo di sesso, e che ci sono cose ben più importanti nella vita, perfino in quella di uno schiavo. Come è vero! Posso solo replicare che è attraverso la nostra sessualità che siamo tutti, uomini e donne, più facilmente resi schiavi. Può essere proprio lì che, anche da uomini o da donne liberi, troviamo troppo arduo mantenere la nostra libertà. Le politiche della carne sono le radici del potere.

Io ero giovane, piena di salute e di gioia di vivere. E anche ora, anche qui, quando col pensiero torno indietro negli anni da questo a quel mondo, al complesso, alla Casa degli Shomeke, rivedo queste immagini come nella radiosa luce di un sogno. Vedo le grandi, forti mani di mia nonna. Vedo mia madre sorridente, col suo foulard rosso al collo. Vedo la figura della mia signora, nera e morbida come seta in mezzo ai cuscini. Sento nel naso il fumo dei fuochi di sterco di vacca, e i profumi del beza. Sento i tessuti morbidi e delicati sul mio giovane corpo, e le mani e le labbra della mia signora. Sento nelle orecchie i vecchi che cantano il Verbo, e la mia voce che canta con la mia signora una canzone d'amore, ed Erod che ci parla della libertà. Il suo viso è illuminato dalle sue visioni. Dietro di lui le finestre dai ricami di pietra e dai vetri violacei tengono lontana la notte. Non dico che vorrei tornare indietro. Preferirei morire piuttosto che lasciare questo mondo per tornare al luogo della schiavitù. Ma è lì che sono rimaste le illusioni di bellezza, di amore e di speranza della mia giovinezza.

Ed è lì che sono svanite. Tutto quel che si basa su queste fondamenta non porta alla fine che disillusione.

Avevo sedici anni l'anno in cui il mondo cambiò.

Il primo cambiamento di cui sentii parlare non suscitò il mio interesse, se non per il fatto che il mio padrone ne era molto entusiasta, come pure Geu e Ahas e alcuni altri giovani schiavi. Perfino la nonna volle sentire le notizie, quando andai a trovarla. «Su Yeowe, su quel mondo di schiavi,» disse, «hanno conquistato la libertà? Hanno cacciato i possidenti? Hanno aperto i cancelli? Oh Signore, o mio dolce Signore Kamye, come è stato possibile? Lodato sia il suo nome, lodati i suoi prodigi!» Si dondolava in su e in giù accoccolata nella polvere, con le braccia attorno alle ginocchia. Era vecchia ormai, e rattrappita. «Raccontami!» mi chiese.

Non avevo molto altro da aggiungere. «Tutti i soldati sono rientrati su Werel,» dissi. «E quell'altra gente è là su Yeowe. Forse sono loro i nuovi padroni, gli alimeni. Vengono da qualche parte lassù,» dissi, indicando il cielo con la mano.

«Cosa sono questi alimeni?» chiese mia nonna, ma io non lo sapevo.

Per me, erano solo parole.

Ma quando il nostro possidente, il signor Shomeke, tornò a casa malato, allora compresi. Arrivò su un aereo al nostro piccolo porto. Lo vidi trasportato in barella, con gli occhi che mostravano del bianco, la pelle nera chiazzata di grigio. Stava morendo di una malattia che imperversava nelle città. Mia madre, seduta accanto alla signora Tazeu, vide sullo schermo un politico il quale asseriva che erano stati gli alimeni a portare la malattia su Werel. Le sue parole erano così terrificanti che pensammo di essere tutti in punto di morte. Quando lo riferii a Geu fece una smorfia. «Alieni, non alimeni,» disse, «e non hanno niente a che fare con la malattia. Il padrone ha parlato coi dottori. È solo una nuova forma di peste.»

L'idea di quel morbo era già di per sé spaventosa. Sapevamo che qualunque schiavo fosse stato scoperto infetto, sarebbe stato ammazzato come una bestia, e le sue spoglie bruciate sul posto.

Non ammazzarono il possidente. La Casa si riempì di dottori, e la signora Tazeu restava giorno e notte al capezzale del marito. Fu una morte atroce. Non arrivava mai. Il signor Shomeke nella sua agonia lanciava versi terribili, grida, gemiti. Era incredibile che un uomo potesse urlare di dolore per ore e ore, come fece lui. La pelle gli si piagava e gli cadeva, lui impazziva, ma non moriva.

Mentre la signora Tazeu, stremata e silenziosa, diventava l'ombra di se stessa, Erod era sempre più pieno di energia e di fervore. A volte, quando udivamo i gemiti di suo padre, i suoi occhi si illuminavano. Sussurrava, «Tual, nostra Signora, abbi pietà di lui,» ma godeva di quei pianti. Sapevo da Geu e Ahas, che erano stati allevati insieme a lui, che il padre lo aveva sempre vessato e disprezzato, e che Erod aveva giurato di essere tutto il contrario di suo padre e di disfare tutto ciò che lui aveva fatto.