Выбрать главу

Nel pomeriggio tale speranza era già stata spazzata via. I giovani erano usciti di testa. Andarono alla Casa a saccheggiarla. I Boss gli spararono addosso dalle finestre, uccidendone molti, mentre gli altri fuggivano. I Boss si trincerarono nella Casa, a bere il vino degli Shomeke. I proprietari di altre piantagioni stavano inviando rinforzi. Sentimmo gli aerei atterrare, uno dopo l'altro. Le schiave restate nella Casa erano adesso alla loro mercé.

Quanto a noi del complesso, eravamo di nuovo coi cancelli sbarrati. Avevamo spostato i grandi paletti dall'esterno all'interno, e pensavamo così di essere al sicuro, almeno per la notte. Ma a mezzanotte arrivarono con potenti mezzi cingolati, e sfondarono le mura, e un centinaio e più di uomini, i nostri Boss e i possidenti di tutte le altre tenute del circondario, si precipitarono all'interno. Portavano armi da fuoco. Lottammo contro di loro con attrezzi da lavoro e bastoni di legno. Un paio di loro furono feriti o uccisi. Ci ammazzarono senza pietà, poi cominciarono a stuprarci. Andarono avanti per tutta la notte.

Un gruppo di uomini si impadronì di tutte le donne e degli uomini anziani e sparò loro in mezzo agli occhi, come si fa con le bestie. Mia nonna era fra loro. Non so cosa ne sia stato di mia madre. Non vidi un solo schiavo rimasto in vita, quando mi portarono via la mattina dopo. Vidi delle carte bianche a terra in mezzo al sangue. I documenti della nostra libertà.

Molte di noi ragazze e donne giovani ancora vive furono sospinte verso un camion e trasportate allo spazioporto. Da lì ci fecero montare su un aereo, a forza di spintoni e bastonate, e fummo portate via. Non ero ancora rientrata in me. Tutto quel che ricordo è quello che mi hanno raccontato le altre in seguito.

Ci ritrovammo in un complesso, del tutto simile al nostro. Pensai che ci avessero riportato a casa. Ci sospinsero all'interno attraverso le scale riservate ai castrati. Era mattina, e i braccianti erano fuori al lavoro, solo le donne, i cuccioli e i vecchi erano rimasti nel recinto. Le nonne ci vennero incontro irritate e scontente. Da principio non riuscivo a capire perché fossero tutte delle sconosciute. Cercai la nonna.

Avevano paura di noi, credendo che fossimo delle fuggiasche. Negli ultimi anni, molti schiavi delle piantagioni s'erano dati alla fuga, tentando di raggiungere le città. Pensavano che fossimo delle ribelli, e che avremmo provocato dei guai. Ci aiutarono comunque a ripulirci, e ci assegnarono uno spazio vicino alla torretta dei castrati. Non c'erano capanne libere, secondo loro. Ci informarono che ci trovavamo nella Tenuta di Zeskra. Non vollero sapere niente di quel che era accaduto a Shomeke. Non ci volevano lì. Non volevano saperne dei nostri guai.

Dormimmo per terra senza alcun riparo. Alcuni schiavi attraversarono il fossato durante la notte e ci stuprarono, perché non c'era nessuno a impedirglielo, nessuno per cui avessimo alcun valore. Eravamo troppo deboli e stavamo troppo male per resistere. Una di noi, una ragazza di nome Abye, cercò di opporre resistenza. Gli uomini la picchiarono fino a farle perdere i sensi. La mattina dopo non era in grado di parlare, né di camminare. Fu lasciata lì quando vennero i Boss a portarci via. Anche un'altra ragazza fu lasciata indietro, una robusta bracciante con cicatrici bianche sulla testa, come delle scriminature nei capelli. La osservai meglio mentre ce ne andavamo e mi resi conto che era Walsu, la mia vecchia amica. Non ci eravamo riconosciute. Se ne stava seduta a terra, a capo chino.

Cinque di noi furono portate dal recinto alla Grande Casa di Zeskra nei quartieri delle schiave. Lì per un certo periodo conservai una flebile speranza, dato che sapevo di avere delle capacità come serva di casa. Ma non sapevo ancora quanto Zeskra fosse diversa da Shomeke. La Casa, a Zeskra, era piena di gente, piena di possidenti e di Boss. Era una grande famiglia, non c'era un solo signore come a Shomeke, ma una dozzina, insieme ai loro dipendenti, ai loro parenti e ai loro ospiti, così che ci potevano essere fino a trenta o quaranta persone nel reparto degli uomini, e altrettante donne nel beza, e una cinquantina o più di addetti alla Casa. Non eravamo state portate lì come domestiche, bensì come donne di piacere.

Ci fecero fare il bagno, poi fummo lasciate nel quartiere delle donne di piacere, un grande stanzone senza alcuno spazio privato, dove si trovavano di già una decina o più di donne come noi. Quelle di loro a cui piaceva l'incarico non furono molto contente di vederci, sentendoci come rivali, le altre ci considerarono benvenute, sperando che le sostituissimo mentre loro passavano ai servizi domestici. Nessuna ci fu però veramente ostile, alcune furono gentili e ci dettero dei vestiti, dato che eravamo rimaste nude per tutto il tempo, e cercarono di far coraggio a Mio, la più giovane di noi, una ragazzetta del complesso, di dieci o undici anni, il cui corpo candido era tutto chiazzato di lividi marroni e blu.

Una di loro era una donna alta di nome Sezi-Tual. Mi osservò con espressione ironica. Qualcosa in lei ridestò il mio spirito.

«Tu non sei una polverosa,» disse, «sei nera come quel diavolo del vecchio signor Zeskra in persona. Sei figlia di un Boss, vero?»

«No, signora,» dissi, «sono figlia di un possidente. E nipote di nostro Signore. Mi chiamo Rakam.»

«Tuo Nonno non ti ha trattato molto bene ultimamente,» disse. «Forse dovresti pregare Tual la Misericordiosa.»

«Non cerco affatto pietà,» dissi. Da quel momento in poi Sezi-Tual mi prese in simpatia e mi accordò la sua protezione, di cui avevo tanto bisogno.

Venivamo mandate dall'altra parte, nei quartieri degli uomini, quasi tutte le notti. Quando c'erano dei festini, dopo che le signore si erano ritirate dalla sala da pranzo, venivamo portate dentro per sederci sulle ginocchia dei possidenti e bere vino con loro. Poi quelli ci prendevano lì sui divani o ci portavano nelle loro stanze. Gli uomini di Zeskra non erano crudeli. Ad alcuni piaceva lo stupro, ma la maggior parte preferivano pensare che li desiderassimo e che fossimo liete di compiacerli in tutto. Costoro erano facili da soddisfare: agli uni dimostrando paura e sottomissione, agli altri fingendo passione ed estasi. Ma alcuni dei loro ospiti erano di tutt'altra pasta.

Non c'era alcuna legge o regola contro le lesioni o l'uccisione di una donna di piacere. Il suo padrone poteva anche essere dispiaciuto, ma per orgoglio non poteva ammetterlo. Doveva dare a vedere di avere tante di quelle proprietà da rimanere indifferente alla perdita di una qualunque di esse. Così c'erano uomini la cui fonte di piacere era la tortura, e approfittavano dell'ospitalità di tenute come quella di Zeskra per i loro sfoghi bestiali. Sezi-Tual, una beniamina del Vecchio Padrone, poteva permettersi di protestare con lui e lo faceva, di modo che quegli ospiti non venivano più invitati. Ma mentre ero lì, Mio, la ragazzetta che era venuta con noi da Shomeke, fu assassinata da un ospite che l'aveva legata al letto. Il nodo intorno al collo era così stretto che mentre lui la usava Mio morì strangolata.

Non voglio raccontare altri episodi. Quello che dovevo dire l'ho già detto. Certe verità sono inutili. Ogni sapere è locale, ha affermato il mio amico. È vero, dove è vero, che quella bambina doveva morire in quel modo? È vero, dove è vero, che a quel modo non sarebbe dovuta morire?

Io ero usata spesso dal signor Yaseo, un uomo di mezza età a cui piaceva molto la mia pelle scura e che mi chiamava "signora mia". Mi dava anche della "ribelle", perché quel che era successo a Shomeke la consideravano una ribellione degli schiavi. Le notti in cui non mi mandava a chiamare ero di normale servizio come ragazza di piacere.

Dopo due anni di permanenza a Zeskra, una mattina, sul presto, Sezi-Tual venne da me. Ero rientrata tardi dal letto del signor Yaseo. Non c'era quasi nessuno in giro, perché la notte prima c'era stata una festa, e tutte le ragazze di piacere erano state chiamate. Sezi-Tual mi svegliò. Aveva degli strani capelli, riccioluti, raccolti a cespuglio. Mi ricordo ancora il suo viso sopra di me, e quei capelli ricci che le facevano corona. «Rakam,» mi sussurrò, «il servo di uno degli ospiti mi ha cercato ieri sera. Mi ha dato questo. Dice di chiamarsi Suhame.»