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«Suhame,» ripetei. Ero assonnata. Guardai quel che mi tendeva: un foglio sporco e sgualcito. «Non so leggere!» dissi sbadigliando con insofferenza.

Poi lo guardai e lo riconobbi. Sapevo cosa c'era scritto. Era il documento di libertà. Il mio documento di libertà. Avevo osservato il signor Erod mentre ci scriveva sopra il mio nome. Ogni volta che scriveva un nome lo pronunciava a voce alta in modo che sapessimo cosa stava scrivendo. Mi ricordo l'ampio svolazzo dell'iniziale di entrambi i miei nomi: Radosse Rakam. Presi il foglio in mano, e la mano mi tremava. «Come l'hai avuto?» sussurrai.

«Chiedilo a questo Suhame,» disse lei. Ora capivo che cosa voleva dire quel nome: "da parte dell'Hame", Era una parola d'ordine. Anche lei lo sapeva. Mi stava guardando, e all'improvviso poggiò la fronte contro la mia, trattenendo il respiro. «Ti aiuterò se posso,» sussurrò.

Mi incontrai con "Suhame" in una delle dispense. Appena lo vidi lo riconobbi: era Ahas, il prediletto, insieme a Geu, del signor Erod. Un giovane insignificante e taciturno dalla pelle color della polvere, cui non avevo mai prestato molta attenzione. Aveva occhi indagatori, e avevo sempre avuto la sensazione che quando io e Geu parlavamo lui ci guardasse storto. Adesso mi guardava con una strana espressione, sempre attenta, ma vacua. «Come mai ti trovi qui con questo signor Boeba?» gli chiesi. «Non sei forse libero?»

«Sono libero come lo sei tu,» disse.

Non riuscivo a capire.

«Non sei rimasto, almeno tu, sotto la protezione del signor Erod?» chiesi.

«Sì. Sono un uomo libero.»

Il suo viso cominciò a prender vita, assumendo l'espressione fissa e vuota che aveva mostrato nel vedermi. «La signora Boeba è un membro della Comunità. Io lavoro per l'Hame. Sto cercando di rintracciare la gente di Shomeke. Avevamo sentito dire che qui c'era un certo numero di donne. Ce ne sono altre ancora vive, Rakam?»

La sua voce era dolce, e quando pronunciò il mio nome mi mancò il respiro e sentii un groppo in gola. Lo chiamai per nome, mi avvicinai e lo abbracciai. «Ratual, Ramayo e Keo sono ancora qui,» gli dissi. Mi abbracciò con dolcezza. «Walsu si trova nel complesso,» aggiunsi, «ammesso che sia ancora viva.» Piansi. Non avevo più pianto dalla morte di Mio. Anche lui era in lacrime.

Parlammo, allora e in seguito. Mi spiegò che eravamo liberi a tutti gli effetti, per legge, ma che quella legge non aveva alcun valore nelle Tenute. Il governo non aveva nessuna intenzione di intromettersi fra i possidenti e coloro che i possidenti consideravano proprietà. Se avessimo rivendicato i nostri diritti, gli Zeskra ci avrebbero probabilmente ammazzato, dato che ci consideravano merce rubata e non avrebbero voluto far brutta figura. Dovevamo fuggire, o farci portar via, e raggiungere la città, la capitale, prima di poterci considerare in salvo.

Dovevamo essere sicuri che nessuno degli schiavi di Zeskra ci avrebbe tradito, spinto da gelosia o da mire di favori. Sezi-Tual era l'unica di cui mi fidassi completamente.

Ahas organizzò la nostra fuga con l'aiuto di Sezi-Tual. Una volta la supplicai di venire con noi ma lei pensava che, non avendo documenti, avrebbe dovuto passare la vita a nascondersi, e questo sarebbe stato peggio che vivere a Zeskra.

«Potresti andare su Yeowe,» le suggerii.

Lei rise. «Tutto quello che so di Yeowe è che nessuno torna mai indietro. Che senso ha correre da un inferno a un altro?»

Ratual decise di non venire con noi. Era la favorita di uno dei giovani padroni, e soddisfatta della sua condizione. Ramayo, che era la più anziana fra noi di Shomeke, e Keo, che aveva adesso circa quindici anni, decisero di partire. Quando Sezi-Tual si recò al complesso, seppe che Walsu era ancora viva, e che lavorava come bracciante nei campi. Organizzare la sua fuga era di gran lunga più difficile che non le nostre. Non c'era via d'uscita dal complesso. Sarebbe potuta fuggire solo di giorno, attraverso i campi, sotto gli occhi dei sorveglianti e dei Boss. Era difficile perfino parlare con lei, perché le nonne erano diffidenti. Ma Sezi-Tual ci riuscì, e Walsu le disse che avrebbe fatto qualsiasi cosa pur di "rivedere la sua carta".

L'aereo della signora Boeba ci aspettava sul limitare di un vasto campo di gede che era appena stato mietuto. Era estate inoltrata. Ramayo, Keo e io ci allontanammo dalla Casa separatamente, a ore diverse durante la mattina. Nessuno ci sorvegliava strettamente, dato che non c'era nessun posto dove andare. Zeskra si trova in mezzo ad altre grandi tenute, dove uno schiavo in fuga non avrebbe trovato amici per centinaia di chilometri. Una per volta, seguendo sentieri diversi, attraversammo i campi e i boschi, acquattandoci e nascondendoci per tutto il tragitto fino all'aereo, dove ci aspettava Ahas. Il cuore mi batteva così forte da non poter respirare. Lì aspettammo Walsu.

«Eccola!» esclamò Keo, di vedetta su un'ala dell'aereo. Indicò un punto al di là del vasto campo di stoppie.

Walsu arrivò correndo dal filare di alberi lungo il lato più distante del campo. Correva con passo pesante, sicuro, non sembrava provare paura, ma all'improvviso si fermò. Si voltò. Per un attimo non capimmo perché. Poi vedemmo due uomini uscire dall'ombra degli alberi al suo inseguimento.

Non corse via da loro, guidandoli così verso di noi. Corse verso di loro. Balzò loro addosso come un gatto predatore. Mentre saltava, uno degli uomini sparò. L'altro se lo trascinò a terra nella caduta. Il primo continuò a sparare e sparare. «Dentro,» disse Ahas. «Subito!» Entrammo barcollando nell'aereo che si levò in aria. Tutto sembrò svolgersi in un istante, lo stesso istante in cui Walsu aveva spiccato il suo grande balzo, alzandosi anche lei verso l'alto, verso la morte, verso la libertà.

3 – La città

Avevo ridotto il mio documento di libertà a un minuscolo cencio spiegazzato. L'avevo tenuto in mano per tutto il tempo mentre eravamo sull'aereo, e durante l'atterraggio e mentre attraversavamo su un mezzo pubblico le vie della città. Quando Ahas scoprì cosa tenevo stretto, disse che non mi dovevo preoccupare. La nostra emancipazione era stata registrata nell'Ufficio del Governo e qui in città sarebbe stata valida. Eravamo gente libera. Eravamo gareot, cioè padroni senza schiavi. «Proprio come il signor Erod,» disse. Parole prive di senso, per me. Quante cose avevo da imparare! Tenni su di me il mio documento di libertà finché non ebbi un posto dove metterlo al sicuro. Lo conservo ancora.

Camminammo un po' per le strade, poi Ahas ci condusse in uno dei grandi edifici che si allineavano lungo i marciapiedi. Lo chiamò complesso, ma a noi sembrò piuttosto una casa padronale. Fummo ricevuti da una donna di mezz'età. Era di pelle chiara, ma parlava e si comportava come una possidente, così non sapevo cosa fosse. Si presentò come Ress, affittata e anziana della casa.

Gli affittati erano schiavi dati a nolo dai possidenti a una compagnia. Se erano impiegati in una grande impresa vivevano nel complesso dell'impresa, ma c'erano molti, moltissimi affittati, nella Città, che lavoravano per imprese piccole o gestite autonomamente, e occupavano edifici dati in locazione e chiamati complessi aperti. In questi edifici gli occupanti dovevano rispettare il coprifuoco, dato che le porte venivano chiuse per la notte, ma era l'unico vincolo, per il resto erano autonomi. Adesso noi ci trovavamo in uno di questi complessi aperti. Era sovvenzionato dalla Comunità. Alcuni degli occupanti erano affittati, ma molti erano come noi, gareot che erano stati schiavi. Abitavano lì più di un centinaio di persone in quaranta appartamenti. Il complesso era amministrato da alcune donne che io avrei definito nonne, ma che qui erano chiamate anziane.

Nelle tenute remote nello spazio e nel tempo, dove la vita era protetta da vaste estensioni di terra, da usanze centenarie e da una solida ignoranza, qualunque schiavo era alla completa mercé di qualunque padrone. Da uno di questi luoghi eravamo stati sbalzati in questa enorme folla di due milioni di persone, dove niente e nessuno aveva alcuna protezione contro l'imprevisto e la diversità, dove bisognava imparare più in fretta possibile le regole per sopravvivere, ma dove la nostra vita era nelle nostre mani.