«Gli uomini devono avere la responsabilità del lato pubblico della vita, del grande mondo in cui il bambino dovrà entrare, le donne del lato privato della vita, cioè dell'educazione morale e fisica del bambino. Questa è la divisione stabilita da Dio e dalla Natura,» rispose Erod.
«Allora per una donna emancipazione significa essere libera di entrare in un beza, di restare rinchiusa nel reparto delle donne?»
«Naturalmente no,» cominciò a dire, ma lo interruppi per timore della sua bocca di miele. «Allora cos'è la libertà per una donna? È diversa da quella di un uomo? La libertà non è uguale per tutti?»
Il moderatore batteva nervosamente il suo martelletto, ma un gruppo di schiave rilanciò la mia domanda. «Quando parlerà a nome nostro il Partito Radicale?» chiesero, e un'anziana gridò, «Dove sono le vostre donne, padroni che volete abolire la schiavitù? Perché non sono qui? Le tenete prigioniere nei beza?»
A forza di battere colpi il moderatore fece silenzio. Mi sentivo metà trionfante e metà sconfitta. Vidi che Erod e anche altra gente dell'Hame mi guardavano come un'aperta provocatrice. In effetti le mie parole avevano creato una frattura fra noi. Ma non c'era forse già da prima?
Noi donne tornammo in gruppo verso casa parlando per le strade, parlando a voce alta. Erano le mie strade adesso, con il loro traffico, le loro luci, i loro pericoli, la loro vita. Ero una donna della Città, una donna libera. Quella notte mi sentii una padrona. Padrona della Città. Padrona del futuro.
Le discussioni continuarono. Mi fu chiesto di parlare in molti posti. Mentre stavo uscendo da una di queste riunioni, l'hainese Esdardon Aya mi si avvicinò e mi disse in tono disinvolto, come se si stesse congratulando per il mio discorso, «Rakam, c'è rischio che ti arrestino».
Non capii. Camminando al mio fianco si allontanò dagli altri e proseguì, «Mi sono arrivate delle voci all'Ambasciata… Il governo del Voe Deo sta per cambiare le condizioni degli schiavi emancipati. Non sarete più considerati gareot. Dovrete avere un padrone-garante».
Era una pessima notizia, ma dopo averci riflettuto un po' sopra dissi, «Penso di essere in grado di trovare un padrone che garantisca per me. Il signor Boeba, magari».
«Il padrone-garante dovrà essere di gradimento del governo… Questa manovra è intesa a indebolire la Comunità sia attraverso gli schiavi sia attraverso i padroni a essa iscritti. Una manovra astuta,» disse Esdardon Aya.
«Che ne sarà di quanti fra noi non troveranno un garante gradito?»
«Sarete considerati fuggiaschi.»
Questo significava la morte, o i campi di lavoro, o la vendita all'asta. «Oh, Signore Kamye!» esclamai attaccandomi al braccio di Esdardon Aya mentre una cortina di buio mi calava sugli occhi.
Avevamo camminato per un po' lungo la via. Quando riuscii a vederci di nuovo guardai la strada, gli alti edifici della Città, lo sfolgorio delle sue luci che avevo sentito così mie.
«Ho degli amici,» disse l'Hainese continuando a passeggiare con me, «che stanno organizzando un viaggio nel regno del Bambur.»
«Cosa potrei andare a fare laggiù?» chiesi dopo un po'.
«Da lì parte una nave per Yeowe.»
«Per Yeowe!» esclamai.
«Così ho sentito dire,» disse lui, come se parlasse del percorso di un mezzo pubblico. «Fra qualche anno mi aspetto che sarà il Voe Deo stesso a incoraggiare viaggi su Yeowe. Liberandosi così di ribelli, provocatori, membri dell'Hame. Ma per far questo dovrebbero prima riconoscere Yeowe come stato di diritto, passo che non si sono ancora decisi a compiere. Per il momento, comunque, stanno autorizzando qualche scambio commerciale semi-legale con altri stati dipendenti… Un paio d'anni fa il re del Bambur ha comprato una delle vecchie navi di una delle Corporazioni, autentico cimelio del commercio con le colonie. Il re aveva intenzione di visitare i satelliti di Werel. Ma li ha trovati noiosi. Allora ha ceduto in affitto la nave a un consorzio di studiosi dell'Università del Bambur e di uomini d'affari della capitale. Così alcuni industriali del Bambur mantengono un piccolo commercio su Yeowe e alcuni scienziati dell'università vi compiono allo stesso tempo spedizioni scientifiche. Naturalmente ogni viaggio ha costi elevati, per cui trasportano quanti più scienziati possono a ogni viaggio.»
Sentivo e non sentivo quel che diceva, ma ne afferrai il senso.
«Per il momento,» proseguì lui, «è andato tutto liscio.»
Il suo tono era tranquillo, leggermente divertito, ma senza arie di superiorità.
«La Comunità è al corrente di questa nave?» chiesi.
«Alcuni membri sì, credo. E anche qualcuno dell'Hame. Ma è un segreto rischioso. Se il Voe Deo scopre che uno stato dipendente sta esportando merce di valore… In effetti, pensiamo che abbiano qualche sospetto. Perciò è una decisione da non prendere alla leggera. È allo stesso tempo rischiosa e irrevocabile. È per il rischio che comporta che ho esitato a parlartene. Ho esitato così a lungo che ora devi decidere molto in fretta. Insomma, è per stanotte, Rakam.»
Distolsi lo sguardo dalle luci della Città che impedivano di scorgere il cielo. «Voglio partire,» dissi. Pensavo a Walsu.
«Ottimo,» disse lui. All'incrocio seguente cambiò direzione, non più verso casa mia, ma verso l'Ambasciata dell'Ekumene.
Non mi sono mai chiesta perché abbia fatto questo per me. Era un uomo insondabile, dotato di insondabile potere, ma diceva sempre la verità e credo che, all'occorrenza, seguisse gli impulsi del suo cuore.
Come entrammo nel territorio dell'Ambasciata, un grande parco i cui lampioni irradiavano di luce soffusa la notte invernale, mi fermai. «I miei libri!» esclamai. Mi guardò con aria interrogativa. «Volevo portare i miei libri su Yeowe,» dissi. La voce mi si spezzò in un pianto convulso, come se in quell'unico desiderio risiedesse tutto il dolore per quanto mi lasciavo dietro. «C'è un gran bisogno di libri su Yeowe,» dissi.
Dopo una breve pausa lui mi rassicurò, «Te li farò spedire con la nostra prossima nave. Vorrei tanto farti imbarcare direttamente per Yeowe,» aggiunse abbassando la voce, «ma purtroppo l'Ekumene non può offrire passaggi a schiavi fuggiaschi…»
Mi girai, gli afferrai la mano e vi poggiai per un attimo la fronte. Credo sia stata l'unica volta in vita mia che ho fatto quel gesto di mia libera iniziativa.
Rimase esterrefatto. «Andiamo, andiamo,» disse, facendomi fretta.
L'ambasciata aveva al suo servizio delle guardie wereliane, per la maggior parte veot, uomini dell'antica casta guerriera. Uno di loro, un tipo serio, cortese, molto taciturno, mi scortò fino all'aereo per il Bambur, l'isola-reame a est del Grande Continente. Aveva con sé tutti i documenti che mi servivano. Dall'aeroporto mi condusse al Reale Osservatorio Spaziale, fatto costruire dal re per la sua astronave. Da lì senza indugio fui fatta salire a bordo della nave, che si trovava sulla sua imponente piattaforma, pronta alla partenza.
Immagino che sul davanti avessero allestito confortevoli appartamenti per il re quando compì la sua unica crociera per i satelliti. Il corpo della nave, che era appartenuta alla Corporazione delle Piantagioni Agricole, era ancora formato da grandi scomparti per il trasporto dei prodotti della colonia. Avrebbe trasportato grano da Yeowe nelle prime quattro stive, che adesso erano piene di macchinari agricoli fabbricati nel Bambur. Il quinto scomparto era carico di schiavi.