Io imparai a tacere.
Comunque la situazione non era, sia per Tualtak che per me, così grave come per le nostre otto compagne del Bambur. Eravamo i primi esseri venuti da un luogo diverso che la gente del villaggio avesse mai visto. Conoscevano una sola lingua e consideravano le donne del Bambur creature malefiche perché non parlavano "come gli umani". Le frustavano per il solo fatto di parlare fra loro nella loro lingua.
Confesserò che durante il primo anno nel Mondo Libero avevo il morale a terra, come ai tempi di Zeskra. Odiavo dover stare tutto il giorno nell'acqua bassa delle risaie. I nostri piedi erano sempre fradici, gonfi e incistati di minuscoli vermi che dovevamo estirparci di dosso tutte le sere. Era comunque un lavoro utile e non troppo gravoso per una donna in buona salute. Non era il lavoro quello che mi deprimeva.
Hagayot non era un villaggio tribale, non era così tradizionalista come certi vecchi villaggi della cui esistenza sono venuta a conoscenza più tardi. Le ragazze non subivano lo stupro rituale e una donna poteva considerarsi al sicuro nel reparto delle donne. Avrebbe "saltato il fosso" solo con un uomo di sua scelta. Ma se una donna si fosse recata in un posto qualsiasi da sola, o perfino se fosse rimasta separata dalle altre donne durante il lavoro alle risaie, avrebbero pensato che "fosse in cerca", e ogni maschio si sarebbe sentito in diritto di prenderla con la forza.
Feci amicizia con le donne del villaggio e con quelle del Bambur. Non erano più ignoranti di quanto fossi stata io sino a pochi anni prima, e alcune erano più sagaci di quanto io stessa fossi mai stata. Non c'era alcuna possibilità di amicizia con gli uomini, che si consideravano nostri padroni. Non intravedevo alcun possibile cambiamento di vita. Il mio cuore era molto triste quando, la sera, sdraiata nella capanna in mezzo alle donne e ai bambini pensavo, "È per questo che Walsu ha sacrificato la vita?"
Durante il secondo anno decisi di fare tutto quel che era in mio potere per superare la misera condizione da cui mi sentivo oppressa. Una delle donne del Bambur, debole e non troppo sveglia, frustata e picchiata sia dalle donne che dagli uomini perché parlava la sua lingua, era annegata in una delle grandi risaie. Si era distesa nell'acqua tiepida non più profonda delle sue caviglie ed era annegata. Avevo paura di quello spirito rinunciatario, di quella palude di disperazione. Decisi di usare il mio talento e di insegnare a leggere alle donne e ai bambini.
Scrissi alcune filastrocche su carta di riso e le proposi dapprima come gioco per i bambini piccoli. Alcune delle ragazzette più grandi e delle donne si incuriosirono. Alcune di loro sapevano che la gente dei paesi e delle città sapeva leggere. Lo consideravano una specie di mistero, di magia, che conferiva alla gente di città un grande potere. Io non le smentii.
Per le donne, scrissi dapprima versi e passi dell'Arkamye, tutto quel che ne riuscivo a ricordare, in modo che ce l'avessero a disposizione e non dovessero aspettare che qualcuno dei cosiddetti "sacerdoti" lo recitasse. Erano orgogliose di imparare a leggere quei versi. Poi ci fu la mia amica Seugi che mi raccontò una storia: un suo ricordo di un incontro con un feroce gatto da caccia nelle paludi, da bambina. Lo trascrissi, intitolandolo: "Il leone della palude, di Aro Seugi" e lo lessi ad alta voce alla narratrice e a un gruppo di ragazzine e di donne. Rimasero strabiliate, scoppiarono a ridere. Seugi scoppiò a piangere, toccando lo scritto che conteneva la sua voce.
Il capo del villaggio e i suoi accoliti e sorveglianti e figli onorari, tutta la gerarchia di potere del villaggio, consideravano con diffidenza e disapprovazione il mio insegnamento, senza però azzardarsi a proibirmelo. Il governo della regione di Yotebber aveva reso noto che sarebbero state istituite delle scuole nelle campagne, dove sarebbero stati mandati per metà dell'anno i ragazzi dei villaggi. Gli uomini del villaggio sapevano che i loro figli sarebbero stati avvantaggiati al loro arrivo a scuola, nel caso avessero già saputo leggere e scrivere.
Il Figlio Prescelto, un uomo alto, tranquillo, di carnagione chiara, cieco da un occhio per una ferita di guerra, alla fine mi venne a trovare. Indossava il suo manto di rappresentanza, un cappotto attillato lungo come quelli che i possidenti di Werel indossavano trecento anni prima. Mi disse che non dovevo insegnare a leggere alle femmine, ma solo ai maschi.
Gli risposi che intendevo insegnare a tutti coloro che volevano imparare, oppure a nessuno.
«Alle femmine non interessa imparare,» disse lui.
«Non è vero. Quattordici ragazze hanno chiesto di seguire le mie lezioni, di ragazzi solo otto. Pensi che le ragazze non abbiano bisogno di istruzione religiosa, Figlio Prescelto?»
Esitò un attimo. «Gli basterà conoscere la vita della Signora della Misericordia,» disse.
«Scriverò per loro la vita di Tual,» replicai all'istante. Se ne andò, salvando così la faccia.
Non fu una di quelle vittorie che fanno saltare dalla gioia ma, se non altro, potei continuare a insegnare.
Tualtak mi stava sempre addosso con la sua idea di fuggire, fuggire nella città verso cui scorreva il fiume. Era diventata magrissima, perché non riusciva a digerire il cibo pesante. Odiava il lavoro e la gente. «Va bene per te, che sei stata un cucciolo di piantagione, una polverosa, ma io ho un'altra storia: mia madre era un affittata, abitavamo in un bell'appartamento in via Haba, e io ero la più istruita che avessero mai avuto al laboratorio» e via di seguito, senza fine, con i suoi ricordi di un mondo perduto.
Qualche volta la stavo a sentire mentre parlava di fuggire. Cercavo di ricostruire, dai miei libri perduti, la mappa di Yeowe. Ricordavo il grande fiume, lo Yot, che scorreva nell'entroterra per tremila chilometri fino al Mare del Sud. Ma in che punto del suo lungo percorso ci trovavamo? Quanto eravamo distanti da Città di Yotebber che sorgeva sulla sua foce? Fra Hagayot e la città potevano esserci altri cento villaggi come il nostro. «Sei mai stata violentata?» chiesi a Tualtak.
Si offese. «Sono una noleggiata, io, non una donna di piacere,» mi ritorse contro.
Le spiegai, «Io sono stata una donna di piacere per due anni. Se dovessi subire di nuovo violenza da un uomo lo ucciderei, oppure mi ucciderei. Due donne di Werel in giro da sole da queste parti finirebbero per subire ogni sorta di violenza. Io non me la sento, Tualtak».
«Non può essere così dappertutto!» gridò, talmente disperata da farmi venire un groppo in gola dal pianto.
«Forse quando apriranno la scuola ci sarà gente della città e allora…» Non avevo altro da offrire a lei, e a me stessa, come speranza. «Forse se quest'anno il raccolto sarà buono, e noi otterremo i nostri soldi, potremo prendere il treno…»
Era questa, in effetti, la nostra più ardente speranza. Il problema era come ottenere il denaro dal capo e dai suoi accoliti. Tenevano gli introiti della cooperativa in un casotto di pietra che chiamavano la Banca di Hagayot, e solo loro toccavano il denaro. Ciascuno di noi aveva un conto aperto, che veniva accuratamente aggiornato, col vecchio Bancario-Capo che mostrava i rendiconti scrivendoli sulla terra quando qualcuno glieli chiedeva. Ma le donne e i bambini non potevano ritirare il denaro dai propri conti. Tutto quello che potevamo ottenere era una specie di buono, delle tavolette di creta col sigillo del Bancario-Capo, con le quali potevamo effettuare scambi fra noi, comprare oggetti fabbricati dalla gente del villaggio, vestiti, sandali, attrezzi, collane di perline, birra di riso. Il denaro vero era al sicuro, almeno così ci dicevano, nella banca. Ripensai a quel vecchio schiavo zoppo di Shomeke, che aveva ballato e cantato, "Denaro in banca, o Signore! Denaro in banca!"
Già prima del nostro arrivo, le donne avevano mal tollerato questo sistema. Adesso eravamo in nove di più a essere intolleranti.