Выбрать главу

«Sono così tanti che non so neanche dove metterli,» esclamai sbalordita, rendendomi conto di come quello strano personaggio, Vecchia Musica, mi avesse aiutato ancora una volta nel mio cammino verso la libertà.

«Forse nella sua scuola, nella biblioteca della sua scuola?»

Era una buona idea, ma immaginai subito come i controllori del Capo li avrebbero maneggiati con malagrazia e forse confiscati. Quando lo feci presente, il Vice-Nunzio propose, «E se li offrissi io come dono da parte dell'Ambasciata? Credo che la cosa metterebbe in difficoltà i censori!»

«Oh!» esclamai, poi non mi trattenni più, «Perché è così premuroso? Lui prima, e lei adesso… anche lei è hainese?»

«Sì,» disse, eludendo la mia prima domanda. «Lo sono stato. Adesso vorrei considerarmi yeowiano.»

Mi chiese di sedermi a bere un bicchiere di vino con lui prima che la sua scorta mi riaccompagnasse a casa. Era disponibile e amichevole, per quanto riservato. Mi accorsi che era stato ferito. C'erano cicatrici recenti sul suo viso, e parte della sua capigliatura non era ricresciuta in un punto in cui era stato colpito al capo. Quando mi chiese di che genere fossero i miei libri, risposi, «Di storia».

Il suo sorriso si aprì, lentamente, questa volta. Non disse niente ma alzò il bicchiere verso di me. Sollevai il mio, imitando il suo gesto, e bevemmo.

Il giorno seguente provvide a far recapitare i libri alla scuola. Nel tirarli fuori e disporli sugli scaffali ci rendemmo conto di aver ricevuto un tesoro immenso. «Non esiste niente del genere all'università,» disse uno degli insegnanti, che vi aveva studiato per un anno.

C'erano volumi di storia e di antropologia riguardanti Werel e i mondi dell'Ekumene, saggi di filosofia e di politica di autori wereliani e di altri mondi, sommarii di letteratura, poesia e racconti, enciclopedie, libri di scienza, atlanti, dizionari. In un angolo di una delle casse c'erano i miei pochi libri, il mio tesoro personale, compresa quella prima, scarna Storia di Yeowe, stampata presso l'Università di Yeowe nell'Anno Primo della Libertà. Quasi tutti i miei libri li lasciai alla biblioteca, ma quello e pochi altri me li portai a casa, per un senso di affetto e di sicurezza.

Non molto tempo prima avevo trovato un altro oggetto di affetto e di sicurezza. Un ragazzo della scuola mi aveva portato in regalo un gattino maculato, appena svezzato. Il ragazzo me l'aveva offerto con tale amorevole orgoglio che non avevo potuto rifiutare. Quando cercai di rifilarlo a un'altra insegnante, tutti mi presero in giro. «Sei tu l'eletta, Rakam!» mi dissero. Così, controvoglia, mi portai la creaturina a casa, timorosa della sua fragilità e minutezza, e provandone quasi un certo disgusto. Le donne del beza a Zeskra avevano tenuto delle bestiole, gatti maculati e cani volpini, animaletti viziati e nutriti meglio di quanto non lo fossimo noi. Mi era stato imposto il nome di una di quelle bestiole, un tempo.

Spaventai il gattino estraendolo dalla sua cesta, tanto che mi morse il pollice fino all'osso. Era minuscolo e fragile ma aveva buoni denti. Cominciai a guardarlo con più rispetto.

Quella notte lo misi a dormire nella sua cesta, ma si arrampicò sul mio letto e non mi si spostò dalla faccia finché non gli permisi di entrare sotto le coperte. Lì dormì perfettamente immobile tutta la notte. La mattina dopo mi svegliò saltellando sopra di me, intento a cacciare le particelle di polvere in un fascio di luce. Mi fece ridere nello svegliarmi, il che è una sensazione piacevole. Mi resi conto di non aver mai riso molto, e di averne una gran voglia.

Il gattino era tutto nero, dato che le sue pezzature si vedevano solo in controluce, nero su nero. Lo chiamai Possidente. Era piacevole tornare a casa la sera e trovare ad attendermi il mio piccolo Possidente.

Durante la successiva metà dell'anno fummo impegnate a organizzare la grande dimostrazione delle donne. Ci furono molte riunioni, ad alcune delle quali incontrai di nuovo il Vice-Nunzio, e così cominciai a guardare sempre se c'era. Mi piaceva osservarlo mentre ascoltava le nostre discussioni. Alcuni sostenevano che la dimostrazione non doveva essere limitata ai torti subiti dalle donne e ai loro diritti, perché l'uguaglianza è un diritto di tutti. Altri sostenevano che non doveva dipendere in alcun modo dal sostegno di stranieri, ma restare un'iniziativa strettamente yeowiana. Il signor Yehedarhed li stava ad ascoltare, ma io mi risentii. «Io sono una straniera,» affermai. «Questo significa che non conto nulla per voi? È un modo di ragionare da padroni, come se voi foste superiori agii altri popoli!» La dottoressa Yeron soggiunse, «Crederò all'uguaglianza come diritto di tutti il giorno in cui lo vedrò scritto sulla Costituzione di Yeowe». La nostra Costituzione, infatti, ratificata dal suffragio universale durante il mio soggiorno ad Hagayot, si riferiva solo ai cittadini maschi. Lo scopo della dimostrazione fu esplicitato alla fine in una richiesta di emendamento della Costituzione che comprendesse nella definizione di "cittadino" anche le donne, che definisse modalità di voto segreto, garantisse libertà di parola, di stampa e di assemblea, e istruzione gratuita per tutti i bambini.

Mi distesi sui binari insieme ad altre settantamila donne, in quella calda giornata. Cantai con loro. Ascoltai il suono formato da tante voci di donne che cantavano insieme, un suono così intenso, così profondo.

Avevo cominciato a parlare di nuovo in pubblico mentre stavamo reclutando donne per la grande manifestazione. Era un dono che avevo, e ne facevo uso. Qualche volta bande di ragazzi o di uomini ignoranti venivano a provocarmi e a minacciarmi gridandomi, «Donna-Boss, Donna-Padrona, sesso nera, tornatene da dove sei venuta!» Una volta mentre mi gridavano quel "tornatene da dove sei venuta" mi chinai sul microfono e dissi, «Non posso tornare. C'è una canzone che cantavamo spesso nella piantagione in cui ero schiava,» e cantai,

Oh, oh, Yeowe! Nessuno mai più tornerà!

Quella canzone li mise a tacere per un po'. Lo sentirono anche loro, quell'atroce dolore, quel desiderio cocente.

Dopo la grande manifestazione l'attività frenetica non venne mai meno, ma c'erano periodi in cui veniva meno l'energia, in cui "il movimento non si muoveva", come scherzava la dottoressa Yeron. Durante uno di questi periodi andai da lei a proporle di metter su una tipografia per stampare libri. Era da tempo uno dei miei sogni, nato quel giorno ad Hagayot in cui Seugi aveva pianto toccando le sue parole.

«Le parole volano via,» dissi. «Tutte le parole o le immagini nella rete volano via, e chiunque può alterarne la memoria, ma i libri restano. I libri durano. Sono il corpo della storia, come dice il signor Yehedarhed.» «Ci sono gli ispettori,» obiettò la dottoressa Yeron. «Finché non otterremo l'emendamento della Costituzione sulla libertà di stampa, i Capi non permetteranno a nessuno di pubblicare qualcosa che non sia stato scritto sotto loro dettatura.»

Non volevo rinunciare all'idea. Sapevo che nella regione di Yotebber non avremmo potuto pubblicare niente di politico, ma feci presente che avremmo potuto pubblicare racconti e poesie di donne della regione. Altri sostennero che sarebbe stato uno spreco di tempo. Discutemmo a lungo sull'argomento sviscerandone ogni aspetto. Il signor Yehedarhed rientrò da un viaggio all'ambasciata, lassù a nord, nella Vecchia Capitale. Stette ad ascoltare le nostre discussioni, ma non si pronunciò, il che mi deluse. Avevo contato sul suo appoggio al mio progetto.

Un giorno stavo rientrando da scuola nel mio appartamentino che si trovava in un grande edificio, vecchio e rumoroso, non lontano dal lungofiume. Mi piaceva quel posto perché le mie finestre si aprivano fra i rami degli alberi, e attraverso gli alberi potevo scorgere il fiume, largo sei chilometri in quel punto, che scorreva tranquillo in mezzo a strisce di rena, cespugli acquatici e isolotti coperti di salici nella stagione secca, e sfiorava il limitare degli argini nella stagione umida quando era gonfiato dai temporali. Quel giorno, mentre stavo per arrivare a casa, incontrai il signor Yehedarhed con due delle sue guardie del corpo dalle facce scorbutiche che lo seguivano come di consueto. Mi salutò e mi chiese se potevamo parlare. Imbarazzata, non trovai di meglio che invitarlo a salire di sopra da me.