Non dissi nulla. Mi guardò senza voltare la testa. «Mi piace riuscire a scorgere la direzione del suo sguardo,» mi scappò detto senza intenzione.
«Mi piace non riuscire a scorgere quella del suo,» disse lui guardandomi dritto negli occhi.
Proseguimmo la passeggiata. Un airone si levò in volo da un isolotto erboso e le sue grandi ali sfiorarono in volo il pelo dell'acqua. Andavamo verso sud, come il corso del fiume. Il cielo a occidente era pieno di luce mentre il sole tramontava dietro la città in una cortina di caligine.
«Rakam, vorrei conoscere le sue origini, sapere della sua vita su Werel,» mi chiese in un sussurro.
Emisi un lungo sospiro. «Tutto è finito,» dissi, «Passato.»
«Noi siamo il nostro passato. Anche se non siamo solo quello. Desidero conoscerla. Mi scuserà, ma desidero sapere tutto di lei.»
Dopo un po' dissi, «Le racconterò. Ma è talmente triste. Talmente brutto. È così bello qui, adesso. E non voglio rovinare tutto».
«Qualsiasi cosa mi dirà sarà per me un dono di valore,» disse con quella voce sommessa che mi arrivava dritta al cuore. Allora gli raccontai tutto del complesso di Shomeke, e poi feci scorrere in fretta il resto della mia storia. Qualche volta mi fece delle domande. Più che altro ascoltò. A un certo punto della mia narrazione mi posò la mano sul braccio, ma non ci feci molto caso. Quando la ritirò, credendo che un mio movimento significasse che non gradivo, sentii la mancanza di quel suo tocco lieve. La sua mano era fresca. Continuai a sentirmela sull'avambraccio dopo che l'ebbe ritirata.
«Signor Yehedarhed!» chiamò una voce dietro di noi. Era una delle guardie del corpo. Il sole era calato, il cielo si era colmato di rosso e di oro. «Torniamo indietro?»
«Sì,» disse lui, «grazie.» Mentre ci giravamo gli presi il braccio. Sentii che tratteneva il respiro. Non avevo desiderato né uomo né donna sin dai tempi di Shomeke, questa è la verità. Avevo voluto bene a delle persone, e le avevo toccate con amore, ma mai con desiderio. Il mio cancello era rimasto chiuso.
Ora si era aperto. Ora mi sentivo venir meno tanto da non poter quasi camminare al solo tocco della sua mano.
Dissi, «È bello camminare con te, è così sicuro».
Non sapevo bene neanch'io cosa stavo dicendo. Avevo trent'anni ma ero come una ragazzina. La ragazzina che non ero mai stata.
Lui non disse nulla. Camminammo insieme in silenzio tra il fiume e la città nello splendore del tramonto.
«Vieni a casa con me, Rakam?»
Questa volta fui io a non dire nulla.
«Loro non verrebbero con noi!» mi disse piano piano all'orecchio, sfiorandomi col suo respiro.
«Non mi far ridere!» esclamai, e scoppiai a piangere. Piansi per tutta la strada di ritorno lungo il fiume. Fui colta da singhiozzi, e quando credevo di poter smettere ne fui sopraffatta di nuovo. Piansi su tutti i miei dolori, su tutte le mie vergogne. Piansi perché erano parte di me, e lo sarebbero rimasti per sempre. Piansi perché il cancello era aperto e finalmente l'avrei potuto varcare e raggiungere il mondo dall'altra parte, ma avevo paura.
Quando arrivammo alla macchina, parcheggiata vicino alla mia scuola, mi prese tra le braccia e mi tenne così, in silenzio. Le due donne sui sedili anteriori non si voltarono mai indietro.
Andammo nella sua casa, che io avevo già visto una volta, una vecchia casa padronale dei tempi delle Corporazioni. Ringraziò le guardie e chiuse la porta. «La cena!» disse. «Il cuoco oggi non c'è. Avevo pensato di portarti al ristorante. Me ne sono dimenticato.» Mi accompagnò in cucina, dove rimediammo del riso freddo, insalata e vino. Dopo mangiato mi guardò attraverso il tavolo di cucina, poi abbassò lo sguardo. La sua incertezza mi rendeva tesa e silenziosa. Dopo un intervallo interminabile disse, «Oh, Rakam! Posso fare l'amore con te?»
«Voglio fare l'amore con te,» risposi io. «Non l'ho mai fatto. Non ho mai fatto l'amore con nessuno.»
Si alzò sorridendo e mi prese per mano. Salimmo insieme al piano di sopra, oltrepassando quello che era stato l'ingresso al reparto degli uomini della casa. «Mi sono sistemato nel beza,» disse, «nell'harem. Abito nel reparto delle donne. Mi piace il panorama.»
Entrammo nella sua stanza. Restò lì fermò, a guardarmi, poi distolse lo sguardo. Ero così intimorita, così stranita, che pensai che non ce l'avrei mai fatta ad avvicinarmi a lui e a toccarlo. Invece lo feci. Alzai la mano e gli sfiorai il viso, le cicatrici vicino all'occhio e sulla bocca, poi lo presi tra le braccia. Finalmente lo tenevo stretto a me, sempre più stretto.
A un certo punto della notte, mentre giacevamo allacciati ed esausti gli chiesi, «Hai mai fatto l'amore con la dottoressa Yeron?»
Sentii Havzhiva ridere, un lento riso soffocato dal suo ventre poggiato contro il mio. «No,» disse. «Con nessuno. Su Yeowe sei la prima. E anch'io sono per te il primo su Yeowe. Siamo vergini, due vergini yeowiani… Oh, Rakam, mia araha…» Mi poggiò la testa sull'incavo della spalla, disse qualcos'altro in una lingua straniera e cadde addormentato. Dormì d'un sonno profondo e silenzioso.
Quello stesso anno entrai all'università, su a nord, assunta come insegnante di storia. Per il livello a cui erano a quel tempo, ero abbastanza adeguata. È da allora che ci lavoro, come insegnante e come responsabile editoriale.
Come aveva promesso, Havzhiva mi fu vicino costantemente, o quasi.
Gli Emendamenti della Costituzione furono approvati con voto segreto, quasi tutti, nell'Anno XVIII della Libertà di Yeowe. Sugli eventi che hanno condotto a ciò, e sulle conseguenze che ne sono derivate, potete leggere la nuova Storia di Yeowe in tre volumi pubblicata dalle Edizioni Universitarie. Vi ho narrato la storia che mi è stato chiesto di narrare. L'ho conclusa, come si concludono molte storie, con l'unione di due persone. Che valore hanno l'amore e il desiderio di un uomo o di una donna rispetto alla storia di due mondi, ai grandi rivolgimenti del tempo che stiamo vivendo, alla speranza, alla crudeltà infinita della nostra specie? Molto poco. Ma una chiave è molto piccola rispetto alla porta che apre. Se perdete la chiave, la porta potrebbe rimanere chiusa per sempre. È nei nostri corpi che perdiamo o diamo inizio alla libertà, nei nostri corpi che subiamo o poniamo fine alla schiavitù. Dedico questo libro al mio amico, col quale ho vissuto e col quale morirò libera.
NOTE SU WEREL E YEOWE
In voedeano (che è anche la lingua parlata su Yeowe) e in gatayano, le vocali si pronunciano come si scrivono, "all'europea", come dicono gli Anglosassoni.
In voedeano, l'accento di solito cade sulla penultima sillaba. Quindi:
Arkamye – ar-KAM-ye
Bambur – BAM-bur
Boeba – bo-E-ba
I nomi propri formati con i nomi delle divinità Kamye (Kam) e Tual tendono a mantenere l'accento su questa radice, perciò:
Abberkam – AB-ber-KAM
Batikam – BA-ti-KAM
Rakam – RA-KAM
Sezi-Tual – SE-zi-TUAL
Tualtak – TUAL-tak
HAINESE
I lunghissimi nomi di clan comuni tra gli Hainesi sono accorciati per l'uso quotidiano. Così Mattin-yehedarhed-dyura-ga-muruskets diventa Yehedarhed.
araha – a-RA-ha
Ekumene (da un'antica parola di Terra) – EK-u-men
Da Manuale dei mondi conosciuti, stampato a Darranda, Hain, ciclo hainese 93, anno locale 5467.
L'anno ekumenico 2102 è considerato come Presente quando le date storiche sono segnalate come anni AP (ante-Presente).
Il sistema solare Werel-Yeowe consiste di 16 pianeti orbitanti attorno a una stella bianco-giallastra (RK-tamo-5544-34). La vita si è sviluppata sul terzo, quarto e quinto pianeta. Il quinto, chiamato Rakuli in voedeano, ospita soltanto forme invertebrate di vita, resistenti al freddo e all'aridità, e non è stato sfruttato né colonizzato. Il terzo e il quarto pianeta, Yeowe e Werel, si situano entro i parametri hainesi di atmosfera, gravità, clima, ecc. Werel è stato colonizzato da Hain al termine dell'espansione, nell'ultimo milione di anni. Pare che non sia stato necessario sradicare la fauna nativa, dal momento che tutte le forme di vita animale trovate su Werel, come anche parte della flora, sono di derivazione hainese. Yeowe non ospitava vita animale fino alla colonizzazione da parte di Werel (365 anni AP fa).