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«Fa male,» grugnì lui.

«Devi,» insistette lei, e lui tossì, coff, coff.

«Ancora!» gli ordinò, e lui tossì fin quando tutto il corpo fu scosso dai sussulti.

«Ottimo,» disse Yoss. «Adesso dormi.» E lui dormì.

Tikuli e Gubu dovevano morire di fame! Corse a casa, nutrì i suoi animaletti, li carezzò, si cambiò la biancheria, si sedette accanto al fuoco per una mezz'ora mentre Gubu le faceva le fusa sotto l'orecchio. Poi tornò attraverso la palude alla casa del Capo.

Per il crepuscolo il letto era asciutto, così lo rimise sotto le coperte. Si fermò per la notte, ma lo lasciò al mattino, dicendogli, «Torno stasera». Lui non disse una parola, era ancora molto ammalato, indifferente alla situazione sua e della donna.

Il giorno dopo stava nettamente meglio, la tosse era catarrosa e grassa, una buona tosse. Yoss si ricordava perfettamente di quando Safnan aveva finalmente cominciato a tossire una buona tosse. Ogni tanto era sveglio del tutto, e quando gli portò la bottiglia che Yoss aveva riciclato come vaso da notte, lui la prese, dando le spalle alla donna per pisciarci dentro. Pudore, un'ottima dote per un Capo, pensò lei. Era soddisfatta di lui e di se stessa. S'era dimostrata utile. «Stanotte ti lascio. Fa' in modo che le coperte non scivolino giù. Torno domattina,» gli disse, compiaciuta di sé, del suo polso, della sua irresponsabilità.

Quando tornò a casa in quella serata fredda e serena, Tikuli era acciambellato in un angolo della stanza in cui non aveva mai dormito prima. Non mangiò, e quando cercò di smuoverlo, di carezzarlo, di farlo dormire sul letto, lui strisciò di nuovo nel suo angolino. Lasciami stare, le disse, distogliendo lo sguardo, distogliendo gli occhi, e ficcando nella curva della zampa anteriore il naso nero e aguzzo, in quel momento asciutto. Lasciami stare, ripeté paziente, lasciami morire, perché è questo che sto facendo.

Yoss s'addormentò, dal momento che era molto stanca. Gubu rimase in giro per gli acquitrini tutta la notte. Al mattino Tikuli era ancora in quello stato, rannicchiato per terra nel punto in cui non aveva mai dormito prima, e aspettava.

«Devo uscire,» gli disse. «Ma tornerò presto, molto presto. Aspettami, Tikuli.»

Lui non disse niente, guardando altrove con quegli appannati occhi d'ambra. Non era lei che stava aspettando.

Yoss attraversò le paludi di buon passo, col ciglio asciutto, furente, inutile. Abberkam era come l'aveva lasciato. Gli diede una pappina di grano, lo accudì e gli disse, «Non mi posso fermare. Il mio cagnolino è malato, devo tornare».

«Cagnolino,» fece eco l'omone con la sua voce cavernosa.

«Un volpino. Me l'ha regalato mia figlia.» Perché glielo doveva spiegare, perché si scusava? Uscì. Quando rientrò, Tikuli era sempre nel punto in cui l'aveva lasciato. Lei rammendò, cucinò del cibo che pensava potesse andar bene per Abberkam, cercò di leggere il libro sui mondi dell'Ekumene, sul mondo privo di guerre, dove era sempre inverno, dove le persone sono sia maschio che femmina. A metà pomeriggio credette opportuno tornare da Abberkam, e si stava appunto alzando quando si alzò anche Tikuli, che le si avvicinò pian pianino. Yoss tornò a sedersi sulla seggiola e si chinò per raccoglierlo, e lui le mise il muso aguzzo nella mano, sospirò e si adagiò con la testa sulle zampe. Sospirò ancora.

Yoss rimase seduta a piangere per un po', non troppo a lungo, poi si alzò per prendere la vanga da giardino e uscì di casa. Scavò una fossa di fianco al camino di pietra, in un angolo solatio. Quando rientrò e raccolse Tikuli pensò con un brivido di terrore, Non è morto! Era morto, solo che non s'era ancora raffreddato. Il folto vello rossiccio tratteneva il calore del corpo. Lei l'avvolse nella sua sciarpa azzurra e lo prese tra le braccia, lo portò alla sua tomba, sentendo ancora attraverso il tessuto quel fioco tepore, e la lieve rigidità del corpo, come una statua di legno. Riempì la tomba, su cui posò una pietra caduta dal camino. Non riuscì a dire nulla, ma in testa aveva un'immagine simile a una preghiera, Tikuli che correva nel sole.

Portò del cibo sotto il portico per Gubu, che era rimasto fuori tutto il giorno, e infine si avviò lungo la passerella. Era una serata coperta, silenziosa. Le canne s'ergevano grigie, e gli stagni avevano una lucentezza plumbea.

Abberkam era seduto nel letto, certamente più in forma, forse con una riga di febbre, ma niente di serio. Era affamato, ottimo segno. Quando gli portò il vassoio, lui le disse, «Sta bene il cagnolino?»

«No,» rispose Yoss, girando il capo dall'altra parte, poi solo dopo un minuto riuscì ad aggiungere, «È morto».

«È nelle mani del Signore,» disse quella voce profonda e roca, e lei rivide Tikuli che correva nel sole, alla presenza di qualcuno, un essere gentile come la luce del sole.

«Sì,» disse. «Grazie.» Le labbra le tremarono e la gola le si serrò. Continuò a studiare il disegno della sciarpa azzurra, foglie azzurre stampate su un fondo più scuro, cercando di trovare qualcosa da fare. Per il momento tornò a controllare il fuoco, poi ci si sedette accanto. Si sentiva molto stanca.

«Prima che il Signore, Kamye, levasse la spada, faceva il mandriano,» disse Abberkam. «E lo chiamavano il Signore delle Bestie, e Mandria di Cervi, perché quando entrò nella foresta venne tra i cervi, e anche i leoni gli camminavano a fianco tra i cervi, senza far danno. Nessuno aveva paura.»

Parlava a voce tanto bassa che le ci volle un po' per capire che stava citando passi dell'Arkamye.

Yoss mise un altro blocco di torba sul fuoco, poi tornò a sedersi.

«Dimmi da dove vieni, Capo Abberkam,» gli disse.

«La piantagione di Gebba.»

«All'est?»

Lui fece segno di sì con la testa.

«Com'era?»

Il fuoco cominciò a covare sotto la cenere, esalando un fumo pungente. La notte era assolutamente silenziosa. Quando era arrivata dalla città in quei posti, il silenzio l'aveva tenuta sveglia, una notte dopo l'altra.

«Com'era?» ripeté l'omone quasi in un sussurro. Come molta gente della loro razza, l'iride scura gli riempiva l'occhio, eppure Yoss scorse il lampo bianco mentre la scrutava. «Sessant'anni fa,» riprese lui. «Vivevamo nel complesso della piantagione. I canneti. Alcuni di noi ci lavoravano, a tagliar canne e a faticare alla segheria. Quasi tutte le donne, e i bambini. La maggior parte degli uomini e i ragazzi sopra i nove o dieci anni scendevano in miniera. Anche qualche ragazza, le volevano piccoline per lavorare nei pozzi in cui un uomo non si poteva infilare. Io ero grosso. Mi mandarono in miniera che avevo ancora otto anni.»

«E com'era?»

«Buio,» rispose lui. Di nuovo Yoss vide il lampo degli occhi. «Se ci ripenso mi domando come facevamo a vivere, come facevamo a sopravvivere in quel posto. L'aria giù in miniera era tanto densa di polvere da essere nera. Aria nera. La tua lanterna non riusciva a far luce oltre un metro e mezzo. In quasi tutti i punti c'era dell'acqua, che arrivava alle ginocchia di un adulto. In un pozzo aveva preso fuoco una parete di carbone bituminoso, stava bruciando, così tutte le gallerie erano intasate di fumo. Continuavano a lavorarci perché i filoni si trovavano dietro quel carbone. Indossavamo delle maschere, coi filtri, ma non servivano a molto. Respiravamo fumo. Respiravo sempre male, come adesso. Non è solo colpa del berlot. È quel fumo di un tempo. Gli uomini morivano di silicosi. Tutti. A quaranta, quarantacinque anni morivano. I Boss regalavano del denaro alla tua tribù quando un uomo moriva. Una gratifica di morte. Certuni pensavano che ne fosse valsa la pena, mentre morivano.»