Выбрать главу

Fronteggiava una strada spaziosa e tranquilla; ma a un isolato di distanza aveva inizio la Temeba, un mercato all’aperto, un tempo famoso come borsanera di sostanze psicogene e teratogene e ora ridotto a mercato di frutta e verdura e di vestiti di seconda mano, e a miserando luogo di avvenimenti secondari. La sua vitalità crapulona era sparita, lasciando dietro di sé soltanto alcolizzati semiparalitici, drogati, storpi, ambulanti, bagasce da mezza tariffa, banchi di pegno, bische volanti, indovini, scultori del corpo e alberghetti infimi. Laia ritornava a Temeba come l’acqua alla sua condizione di equilibrio.

Non aveva mai temuto né disprezzato la città. Era la sua patria. Non ci sarebbero più stati bassifondi come quelli quando la rivoluzione avesse vinto. Ma sarebbe rimasta la miseria. Ci sarebbero stati miseria, spreco, crudeltà. Lei non aveva mai preteso di cambiare la condizione umana, di essere la mammina che si porta via tutte le durezze della vita dei suoi piccoli perché non si facciano più male. Tutto ma non questo. Purché la gente fosse libera di scegliere, non era affar suo se poi viveva in cloache e beveva insetticida. Purché questo non fosse affare degli Affari, fonte di profitto e mezzo di potere per altri. Cose, queste, che aveva intuito assai prima di sapere qualcosa di preciso. Prima di scrivere il suo primo libello, prima di lasciare Parheo, prima di conoscere il significato di «capitale», prima di oltrepassare i confini di via del Fiume dove giocava con gli altri bambini di sei anni posando per terra le ginocchia piene di croste, sapeva già tutto questo: che lei e gli altri bambini e i suoi genitori e i loro genitori e gli ubriaconi e le prostitute e tutta le gente di via del Fiume stavano al fondo di qualcosa, erano le fondamenta, la realtà, la sorgente. Ma nessuno di coloro che si ritenevano fatti di materiale più nobile del fango era disposto a capire. Ora Laia, acqua in cerca della condizione di equilibrio, fango nel fango, avanzava stancamente lungo la strada sporca e rumorosa, e tutta la sconcia debolezza della sua vecchiaia si sentiva a proprio agio. Le sonnacchiose prostitute con la pettinatura laccata che stava tutta di sghimbescio ed era sul punto di sfasciarsi, la vecchia guercia che strillava stancamente i nomi delle sue verdure, il mendicante idiota intento a cacciar via le mosche a schiaffi: erano questi i suoi concittadini. Le assomigliavano, nella loro tristezza, nella loro ripugnanza, pochezza, spregevolezza, oscenità. Erano i suoi fratelli, la sua gente.

Non si sentiva molto bene. Da tanto tempo non si avventurava così lontano — quattro o cinque isolati — da sola, nel rumore e nella calca e sotto il cocente sole dell’estate. Aveva avuto l’intenzione di andare al parco Koly, quel triangolo di erba miseranda al fondo della Temeba, e sedersi per un momento con gli altri uomini e le altre donne che ci andavano ogni giorno, per capire cosa significava starsene seduti là e essere vecchi: ma era troppo lontano. Se non fosse tornata indietro ora, magari l’avrebbe presa un’ondata di capogiro; e aveva una gran paura di cadere, cadere e dover stare a guardare la gente che si avvicinava a osservare una vecchia in preda alle convulsioni. Fece dietrofront e si avviò verso casa, con i segni della fatica e del disgusto di sé visibili sul volto, che sentiva accaldato. Avvertì negli orecchi un ronzio, che cessò subito. Era stato piuttosto intenso, e lei temette davvero di andare a gambe all’aria. Nell’ombra scorse un gradino: vi si diresse, si lasciò cadere giù a poco a poco, si sedette, ed emise un sospiro.

Un fruttivendolo lì vicino sedeva in silenzio dietro la sua mercanzia impolverata e avvizzita. La gente passava. Nessuno comprava. Nessuno la guardava. Odo: chi era? La famosa rivoluzionaria, l’autrice di Comunità, Analogia, eccetera. E chi era? Una vecchia dai capelli grigi e dal volto arrossato, seduta sulla lurida soglia di un tugurio, che biascicava parole fra sé e sé.

Era vero? Era ciò che lei era? Senz’altro era ciò che qualunque passante vedeva. Ma lei, proprio lei, era più di quello che la famosa rivoluzionaria eccetera era stata? No. Non era di più. Ma allora chi era?

La donna che aveva amato Taviri.

Sì. Abbastanza vero. Ma non abbastanza. Quella era cosa finita. Taviri era morto da così tanto tempo!

— Chi sono? — borbottò Laia al suo pubblico invisibile, che sapeva rispondere alla sua domanda e le rispose all’unisono. Lei era la ragazzina con le ginocchia piene di croste, seduta sulla soglia a guardare nella foschia sporca e dorata di via del Fiume, sotto il sole di una tarda estate; la bambina di sei anni, la ragazza di sedici, fiera, irascibile, con la testa piena di sogni, indifferente, irraggiungibile. Lei era se stessa. Sì, era stata l’indefessa lavoratrice e pensatrice, ma un grumo di sangue in una vena le aveva sottratto quella donna. Sì, era stata l’amante, colei che si apriva una strada nella vita, ma Taviri morendo le aveva sottratto quella donna. Niente era rimasto, in realtà, se non le fondamenta. Era tornata: non se n’era andata mai. «Il vero viaggio è il ritorno». Polvere e fango e la soglia di un tugurio. E oltre, in fondo alla strada, quel campo pieno di erbe alte e secche sotto il soffio del vento al crepuscolo.

— Laia! Ma cosa fai, qui? Stai bene?

Uno degli abitanti della Casa, naturalmente: una brava donna, un po’ fanatica e un po’ ciarliera. Laia non ne ricordava il nome sebbene la conoscesse da anni. Lasciò che la riportasse a casa, e lasciò che parlasse per tutta la strada. Nel grande salone (un tempo occupato da cassieri intenti a contare il denaro dietro i banconi lucenti sotto lo sguardo di guardie armate) Laia si sedette su una sedia. Non se la sentiva proprio, almeno per il momento, di salire le scale, sebbene preferisse starsene sola. La donna continuava a parlare, e altri entravano eccitati nella sala. Sembrava che stessero programmando una dimostrazione. Gli eventi, a Thu, procedevano così rapidi che anche lì gli animi si erano infuocati, e bisognava fare qualcosa. Dopodomani — no, domani — ci sarebbe stata una marcia, una grande marcia, dalla città vecchia alla piazza del Campidoglio, lungo il vecchio itinerario.

— Un’altra Rivolta del nono mese — disse un giovane, infiammato e ridente, guardando Laia. Al tempo della Rivolta del nono mese non era nemmeno nato, per lui era soltanto storia. Ora voleva fare anche lui la sua piccola parte di storia. La sala si era riempita. Vi si sarebbe tenuta un’assemblea generale l’indomani alle otto del mattino. — Laia, dovrai parlare.

— Domani? Oh, domani io non ci sarò — disse brusca. Quello che aveva parlato sorrise e qualcun altro rise; Amai la fissò con aria interrogativa. Parlarono ancora e alzarono la voce. La rivoluzione. Ma cosa diavolo l’aveva fatta parlare così? Ma era una cosa da dire alla vigilia della rivoluzione, anche se fosse stata vera?

Aspettò di risentirsi in forze, riuscì a rimettersi in piedi, e malgrado la goffaggine sgusciò via non vista tra la gente eccitata e prese a salire i gradini a uno a uno. Nella stanza sotto di lei, alle sue spalle, una, due, dieci voci stavano dicendo «sciopero generale». — Sciopero generale — biascicò Laia, prendendo fiato sul pianerottolo. Sopra, davanti a lei, nella sua stanza, cosa l’aspettava? Il suo colpo apoplettico privato. Piuttosto buffo. Iniziò a salire la seconda rampa, un gradino alla volta, una gamba alla volta, come una bambina di due anni. Aveva il capogiro, ma non aveva più paura di cadere. Davanti a lei, laggiù, i fiorellini bianchi e secchi dondolavano le corolle e sussurravano nei vasti campi della sera. Settantadue anni e non aveva mai avuto il tempo d'impararne il nome.

FINE