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E poi si ridimentica tutto.

— Incomincia con Oaidun — disse, sedendosi nella poltrona. Noi era alla scrivania, pronto per il lavoro. Lesse brani dalle lettere che aspettavano la risposta di Laia. Lei cercò di essere attenta, e ci riuscì abbastanza bene da dettare una lettera intera e iniziarne un’altra. — Ricorda che a questo stadio il tuo sentimento di fratellanza può essere messo in forse da… no, in pericolo… da… — Annaspò con le parole fino a quando Noi le suggerì: — Il pericolo del culto della personalità?

— Bene. E che niente si lascia corrompere dalla brama del potere quanto l’altruismo… No. E che niente corrompe l’altruismo… No. Oh, per amor di Dio, tu sai quello che intendo dire: scrivilo tu. Anche loro, lo sanno. Sono sempre le stesse cose. Ma perché non se le leggono nei miei libri!

— Restare in contatto — disse Noi con gentilezza, citando uno dei temi centrali della filosofia odoniana.

— D’accordo, ma io sono stanca di essere in contatto. Se tu scrivi la lettera io la firmo, ma questa mattina non ho voglia di occuparmene. — Noi la guardava con un’espressione leggermente interrogativa o preoccupata. Laia disse, con irritazione: — Ho altro da fare!

Quando Noi se ne fu andato Laia si sedette alla scrivania e mosse le carte come per lavorare, perché si era sorpresa — spaventata — per le parole che aveva pronunciato. Non sapeva fare altro. Non aveva mai fatto altro. Era quello il suo lavoro: il lavoro della sua vita. I viaggi di propaganda e le riunioni e la piazza erano ormai fuori dalla sua portata; ma poteva sempre scrivere, e questo era il suo lavoro. E comunque, se lei avesse avuto altro da fare Noi l’avrebbe saputo: teneva in ordine l’agenda e le ricordava con tatto certe cose, come ad esempio la visita degli studenti stranieri proprio quel pomeriggio.

Oh, accidenti! I giovani le piacevano, e da uno straniero s’imparava sempre qualche cosa, ma adesso era stanca di facce nuove e di stare in mostra. Lei imparava dagli stranieri, ma gli stranieri non imparavano da lei: tutto quello che aveva da insegnare l’avevano imparato tanto tempo prima, dai suoi libri e dal Movimento. Venivano soltanto a guardare, come se lei fosse stata la grande torre di Rodarred o il canyon di Tulaevea. Un fenomeno, un monumento. Osservavano con timore mistico, adorante. Parlava loro con violenza: «Siate voi a pensare senza farvi dare l’imbeccata!». «Questo non è anarchismo, ma puro e semplice oscurantismo». «Non penserete mica che libertà e disciplina siano incompatibili, vero?». E quelli accoglievano le staffilate docili come agnellini, riconoscenti, come se lei fosse stata una dea-madre, l’idolo del grembo universale. Proprio lei! Lei che aveva minato i cantieri navali di Seissero e che aveva insultato il presidente del consiglio Inoilte di fronte a settemila persone, quando gli aveva detto che se mai avesse pensato di trarne un utile si sarebbe tagliato da sé i testicoli, li avrebbe fatti laminare in bronzo e poi li avrebbe venduti come ricordini; lei che aveva urlato, imprecato, preso a calci poliziotti e sputato contro preti, e che aveva orinato in pubblico in piazza del Campidoglio sulla grande targa di ottone che diceva QUI FU FONDATO LO STATO SOVRANO DELLA NAZIONE DI A-IO (ecc. ecc.)! Pppuuuhhh a tutto questo! E adesso era la nonnina di tutti, la cara vecchietta, il buon vecchio monumento, venite ad adorarne il grembo. Il fuoco s’è spento, ragazzi: fatevi appresso, non c’è più pericolo.

— No — disse ad alta voce. — Non ci sarò -. Non si spaventava di parlare da sola, perché l’aveva sempre fatto. «Il pubblico invisibile di Laia», lo chiamava Taviri, mentre lei andava in giro per la stanza borbottando. — Non c’è bisogno che veniate, io non ci sarò — disse al suo pubblico invisibile. Aveva appena deciso cosa fare. Se ne sarebbe uscita. Per le strade.

Era irriguardoso deludere studenti stranieri. Era una stramberia tipica della senilità. Era molto poco odoniano. Pppuuuhhh a tutto questo! Che senso c’era a lottare tutta la vita per la libertà e poi finire col non averne neanche un briciolo? Se ne sarebbe uscita a fare una passeggiata.

«Che cos’è un anarchico? Colui che per scelta accetta la responsabilità della scelta».

Stava scendendo le scale quando decise, riluttante, di restare e ricevere gli studenti stranieri. Sarebbe uscita dopo.

Erano giovanissimi, serissimi, con occhi di cerbiatto, irsuti, affascinanti: venivano dall’emisfero occidentale, dal Benbili e dal regno di Mand. Le ragazze indossavano pantaloni bianchi, i ragazzi gonnellini lunghi, marziali e arcaici. Parlavano delle loro attese. — In Mand siamo così lontani dalla rivoluzione che forse ci siamo vicini — disse una delle ragazze con assorta malinconìa, sorridendo: — Il cerchio dell’esistenza! — E mostrò l’incontrarsi degli estremi nel cerchio delle dita esili e brune. Amai e Aevi servirono loro vino bianco e pane nero, l’ospitalità della casa. Ma i visitatori con molta modestia si alzarono tutti per prendere congedo dopo non più di mezz’ora. — No, no, no — disse Laia, — restate, parlate con Aevi e Amai. È solo che se sto seduta m’indolenzisco tutta, capite, e devo muovermi un po’. Mi ha fatto molto bene incontrarvi. Fratellini e sorelline, tornerete presto a trovarmi? — Il suo cuore era con loro, e il loro con lei; e prima di ritirarsi li salutò tutti con un bacio, ridendo, piena di gioia per quelle giovani guance brune, quegli occhi affettuosi, quei capelli profumati. Era davvero un po’ stanca, ma andarsene di sopra a fare un sonnellino sarebbe stato un riconoscersi sconfitta. Prima aveva avuto l’intenzione di uscire. E sarebbe uscita. Non usciva da sola da… da quando? Dalla fine dell’inverno, prima del colpo. Non c’era da stupirsi che fosse un po’ strana. Proprio come essere stata in prigione. Fuori, in strada: il suo mondo era quello.

Uscì tranquilla dalla porta laterale, superò l’aiuola verde, e giunse in strada. Quella sottile striscia di acre terra cittadina era stata coltivata magnificamente e mostrava una buona messe di fagioli e ceëa, ma Laia non s’interessava alle coltivazioni. Certo, era apparso chiaro che le comunità anarchiche, anche durante i periodi di transizione, avrebbero dovuto operare in direzione di un’autosufficienza ideale, ma in che modo questa si dovesse ottenere in termini reali di terreno e di piante non era affar suo. C’erano contadini e agronomi, per questo. Affar suo erano invece le strade, le strade rumorose e puzzolenti, i selciati dove lei era cresciuta e dove aveva vissuto l’intera vita con l’eccezione di quei quindici anni di carcere.

Guardò con affetto la facciata della casa. Il fatto che fosse stata costruita per essere una banca dava agli abitanti attuali un piacere tutto particolare. Conservavano i sacchi di farina integrale nelle camere blindate, e ottenevano la stagionatura del sidro in barilotti collocati nelle cassette di sicurezza. Al disopra delle impeccabili colonne sul fronte della strada si leggeva ancora la scritta: Associazione Bancaria Nazionale per l’Agricoltura. Il Movimento non era particolarmente versato per le denominazioni. Non aveva una bandiera. Gli slogan andavano e venivano secondo necessità. C’era sempre il «cerchio dell’esistenza» da tracciare sui muri e sui marciapiedi dove le autorità l’avrebbero visto. Ma quando si trattava di denominare qualcosa si ritrovavano indifferenti, e accettavano oppure ignoravano i nomi in cui si imbattevano, per paura di essere vincolati e costretti e senza temere di essere contraddittori. E così quella casa cooperativa, prima per notorietà e seconda per vecchiaia, non aveva altro nome che «la banca».

Fronteggiava una strada spaziosa e tranquilla; ma a un isolato di distanza aveva inizio la Temeba, un mercato all’aperto, un tempo famoso come borsanera di sostanze psicogene e teratogene e ora ridotto a mercato di frutta e verdura e di vestiti di seconda mano, e a miserando luogo di avvenimenti secondari. La sua vitalità crapulona era sparita, lasciando dietro di sé soltanto alcolizzati semiparalitici, drogati, storpi, ambulanti, bagasce da mezza tariffa, banchi di pegno, bische volanti, indovini, scultori del corpo e alberghetti infimi. Laia ritornava a Temeba come l’acqua alla sua condizione di equilibrio.