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— L’Imputata avanzi per presentare il suo appello.

Lasciando il banco la ragazza inciampò ed un debole mormorio di disappunto si levò dai palchi di famiglia. Non era una buona Entrata. Ma era un fatto trascurabile.

Abbassò la mano e la pistola uscì dalla fondina con un fluido movimento del braccio che si fuse con un mezzo giro del corpo, trasformando in un cilindro perfetto la sua toga dal collo fino all’orlo. Si sollevò leggermente sulle punte dei piedi e vi furono grida isolate di «Bravo!» dai palchi di famiglia, e si levò anche un più sommesso «eccellente», che era tutto quello che uno zoppo poteva meritare, per quanto il movimento del braccio fosse stato perfetto.

L’Imputata era in piedi, pallida in viso, sulla Pedana dell’Appello.

Con il braccio teso, Joyce attese di pronunciare la sentenza finale.

Stava invecchiando. Gli rimanevano ancora pochi processi. Un giorno non troppo lontano, ad un verdetto di «Probabilmente Colpevole», nel caso l’Imputato avesse una pistola carica, Il Messire avrebbe forse revocato la sentenza.

Non a causa della sua lentezza fisica. La zoppia e l’esitazione nell’estrarre l’arma sarebbero stati solo un sintomo della progressiva lentezza della sua mente. Non avrebbe interpretato correttamente il caso.

Joyce lo sapeva, se lo aspettava e lo accettava, semplicemente. Un Giudice che pronunciasse un verdetto sbagliato meritava la stessa pena di un membro del popolo riconosciuto colpevole.

Per il momento, questo era l’ideale supremo.

— Sei stata riconosciuta completamente colpevole dei capi d’imputazione. — disse, ascoltando le antiche parole che si riversavano nella piazza. — Questa Corte non ti accorda la grazia. Appellati al Messire.

L’Imputata lo fissò con gli occhi spalancati, il viso pallido. Non vi era la certezza che stesse pregando, ma Joyce ne era convinto.

La giustizia confidava nel Messire. Egli conosceva i colpevoli e gli innocenti; puniva gli uni e proteggeva gli altri. Joyce era solo il Suo strumento e il Processo era solo l’opportunità per manifestare il Suo giudizio. Gli uomini potevano giudicarsi a vicenda ed approvare una sentenza. Ma gli uomini potevano essere saggi o stolti nelle loro decisioni. Questa era la natura fallibile dell’Uomo.

Questa era la prova; a questo punto l’Imputato pregava Il Messire per l’infallibile e definitivo giudizio. Questo era il Processo.

Il suo dito si strinse sul grilletto mentre il braccio si abbassava lentamente, protendendosi in avanti. Ora anche Joyce pregava il Giudice Supremo, domandandogli se avesse dato prova di saggezza, se ancora una volta avesse agito bene. Ogni processo era anche il suo Processo. Questo era il suo contatto con Il Messire. Questa era la Verità.

Qualcosa volò turbinando sopra la folla silenziosa e cadde ai piedi della ragazza. Era una pistola, e lei si gettò per afferrarla.

Mentre lei la raccoglieva, Joyce seppe di aver perso il proprio vantaggio. I suoi riflessi erano lenti, e aveva perso due secondi decisivi fermandosi a guardare l’arma, come paralizzato.

Scosse la testa per allontanare la momentanea sorpresa. Ignorò il rumore confuso e l’agitazione della folla. Concentrò tutta la sua attenzione sulla ragazza e sulla pistola. Per quel che lo riguardava, in quel momento lui e la ragazza erano soli in un universo privato, cercando entrambi di soffocare il panico per il tempo sufficiente ad agire.

Joyce aveva perso la mira e il braccio si era abbassato al di sotto della linea di tiro. Lo rialzò, combattendo l’impulso di farlo con un movimento troppo rapido. Se avesse mancato il primo colpo, non ci sarebbe stata la possibilità di spararne un secondo.

In ogni modo quel sistema di mira era migliore di quello convenzionale. Non lasciava spazio all’elaborazione: non aveva né grazia né bellezza, ma era un sistema di mira più sicuro.

Il colpo sparato dalla ragazza lo prese al braccio e la sua mano schizzò in aria per l’impatto. Le dita furono sul punto di perdere la presa sul calcio, e Joyce le strinse convulsamente.

La ragazza stava armeggiando con la pistola, facendo qualcosa alla piastra dell’impugnatura.

L’arma di Joyce sparò in aria ed egli sentì una fitta al braccio per il contraccolpo.

Vide che la ragazza era agitata e confusa quanto lui. Strinse con la mano sinistra l’avambraccio ferito e lo abbassò. Prima che lei potesse sparare ancora, la sua arma esplose un colpo che la fece cadere all’indietro sul terreno. Era morta, senza dubbio.

Trasse un profondo respiro. La pistola fu sul punto di scivolargli tra le dita, ma lui la afferrò con la mano sinistra e la rimise nella fondina.

Lentamente, ricominciò a percepire il mondo intorno a sé. Divenne conscio delle grida rabbiose della folla e degli addetti che lottavano per tenerli a freno. C’era un capannello di gente intorno a uno dei palchi di famiglia, ma prima che potesse farsi un’idea, Kallimer gli mise un braccio intorno alla vita e lo sostenne. Non si era neppure reso conto che stava oscillando.

— Non possiamo preoccuparci della folla — disse Kallimer con voce strana. Il tono era pressante, ma calmo. Non dava segni di isteria e Joyce provò una certa ammirazione.

— Avete visto chi ha lanciato l’arma? — domandò Joyce.

Kallimer scosse il capo. — No. Non ha importanza. Dobbiamo tornare a New York, Joyce guardò in alto verso la piattaforma. Blanding non si vedeva, ma Pedersen, aggrappandosi con le mani al bordo del banco, si lasciò cadere a terra. Si chinò, prese la valigetta che aveva lanciato prima, la aprì ed estrasse la sua arma.

Quella era un’idiozia. Che cosa credeva di fare?

— Joyce! — Kallimer cercò di trattenerlo.

— Sto bene! — scattò Joyce. Cominciò a correre verso Pedersen prima che quello sciocco potesse commettere qualche gesto inconsulto. Mentre correva, capì che Kallimer aveva ragione. Loro tre dovevano tornare a New York il più rapidamente possibile. L’Associazione Forense doveva essere informata.

Pedersen sedeva nell’angolo più lontano dello scompartimento del treno, con gli occhi chiusi e la testa appoggiata al pannello come se stesse ascoltando il rumore del pantografo che correva lungo il cavo aereo. Solo Il Messire sapeva che cosa stesse realmente ascoltando. Il suo volto era pallido.

Joyce si girò rigido verso Kallimer, ostacolato dall’ingessatura e dalla benda che gli teneva il braccio al collo. Il Giudice Aggiunto stava guardando dal finestrino e né lui né Pedersen aveva detto una parola da quando erano saliti sul treno un quarto d’ora prima. In quel momento c’era ancora dell’agitazione sulla piazza. Avevano dovuto aspettare il treno per venti minuti. Questo significava che erano passati più di tre quarti d’ora da quando tutto era cominciato e Joyce ancora non sapeva esattamente che cosa fosse successo. Dell’incidente aveva solo delle impressioni sconnesse, e non riusciva a trovare un significato all’accaduto, anche se sapeva che doveva essercene uno.

— Kallimer.

Il Giudice Aggiunto distolse lo sguardo dal finestrino. — Cosa?

Joyce fece un gesto, consapevole di non riuscire a trovare le parole adatte.

— Volete sapere com’è successo, vero?

Joyce annui, sollevato per non aver dovuto formulare la domanda.

Kallimer scosse il capo. — Non lo so con esattézza. Qualcuno nella folla si è sentito coinvolto al punto da lanciare la pistola alla ragazza. Uno dei suoi parenti, suppongo.

— Ma… — Joyce fece un cenno senza riuscire a parlare. — Era… era un’esecuzione legale. Chi interferirebbe con la giustizia? Chi rischierebbe la dannazione eterna opponendosi alla palese volontà del Messire?

Dal suo angolo, Pedersen emise uno strano suono. Kallimer gli lanciò un’occhiata indecifrabile. Si voltò di nuovo verso Joyce e sembrò cercare le parole.