Anne Rice
Il ladro di corpi
Ai miei genitori, Howard e Katherine O’Brien.
I vostri sogni e il vostro coraggio saranno sempre con me.
Navigando verso Bisanzio
È IL vampiro Lestat che parla. Ho una storia da raccontarvi. Una storia che riguarda qualcosa che mi è accaduto.
La storia comincia a Miami, nel 1990, ed è proprio da lì che voglio partire. È importante tuttavia che voi conosciate i sogni che ho fatto prima di allora, perché anch’essi rivestono un ruolo essenziale. Parlo dei sogni su una vampira bambina, dal cervello di donna e dal viso d’angelo, ma anche di quello su David Talbot, mio amico mortale. E poi ancora dei sogni sulla mia adolescenza mortale vissuta in Francia: delle nevi d’inverno, del castello cadente e desolato di mio padre in Alvernia e della volta in cui andai a caccia del branco di lupi che stava tormentando il nostro povero villaggio.
I sogni possono essere reali come gli eventi davvero accaduti. O almeno così mi è sembrato in seguito.
Quando ho cominciato a fare quei sogni mi trovavo in uno stato d’animo assai cupo: ero un vagabondo, un vampiro errante sulla terra, talvolta così coperto di polvere da passare completamente inosservato. E a nulla servivano i miei splendidi capelli, biondi e fluenti, i penetranti occhi azzurri, gli abiti alla moda, il sorriso irresistibile e soprattutto il corpo ben proporzionato, oltre il metro e ottanta d’altezza, che, a dispetto dei suoi duecento anni, poteva essere scambiato per quello di un mortale ventenne. Nondimeno, ero anche un uomo di buonsenso, un figlio del XVIII secolo, epoca in cui ho vissuto prima di nascere nelle Tenebre.
Sul finire degli anni ’80 del XX secolo, tuttavia, ero molto cambiato rispetto all’ardito, inesperto vampiro dei tempi passati, così fedele al classico mantello nero e ai pizzi di Bruxelles, a quel gentiluomo con tanto di bastone da passeggio e guanti bianchi che danzava sotto i lampioni a gas.
Ero stato trasformato in una sorta di dio tenebroso grazie al dolore, alle vittorie e al troppo sangue dei nostri vampiri più anziani. Disponevo di poteri che mi sconcertavano e che talvolta persino mi agghiacciavano. Erano poteri che mi rendevano infelice, sebbene non sempre ne comprendessi la ragione.
Potevo, per esempio, librarmi nell’aria, viaggiare attraverso i venti della notte e coprire con facilità grandi distanze, come se fossi uno spirito. Potevo creare o distruggere la materia con la forza del pensiero. Potevo attizzare un fuoco soltanto desiderandolo. Potevo chiamare, con la mia voce soprannaturale, altri immortali da un capo all’altro del mondo. Potevo leggere senza sforzo nella mente di vampiri e umani.
Niente male, potreste pensare. Io lo detestavo. Senza dubbio mi affliggevo per quello che ero stato: un ragazzo mortale, il rigenerato che tornava a nuova vita, una volta stabilito che scegliere il male era un bene, se quello doveva essere il suo credo.
Non sono un pragmatista, beninteso. Ho una coscienza acuta e spietata. Avrei potuto essere un bravo ragazzo. Forse a volte lo sono. Ma sono sempre stato un uomo d’azione. Il dolore è uno spreco, come lo è la paura. E proprio l’azione è ciò che troverete qui, non appena avrò finito questa introduzione.
Ricordate: gli inizi sono sempre difficili e spesso risultano artificiosi. «Era il periodo migliore e il periodo peggiore di sempre»… Davvero? Ma quando mai? E poi non tutte le famiglie felici si somigliano, anche Tolstoj deve averlo capito. Non posso cavarmela con un: «In principio…» oppure con un: «A mezzogiorno, mi buttarono giù dal carro di fieno». Oppure sì. Io me la cavo sempre, credetemi. Nabokov fa dire a Humbert Humbert:
«Per una prosa elaborata, si può sempre contare su un assassino». Quell’«elaborata» non può significare «sperimentale»? È ovvio che so di essere voluttuoso, elaborato, lussureggiante: fin troppi sono stati i critici che me lo hanno detto.
Ahimè, io devo fare le cose a modo mio. Ma all’inizio ci arriveremo, se questa non è una contraddizione in termini, ve lo prometto.»
Prima che quest’avventura cominci, devo spiegarvi quanto soffrivo anche per gli altri immortali che avevo conosciuto e amato, giacché essi, molto tempo prima, si erano dispersi, abbandonando il nostro ultimo luogo di riunione nel XX secolo. Voler ricreare una nuova congrega sarebbe stata una follia. Così, l’uno dopo l’altro, epoca dopo epoca, si erano sparsi per il mondo. Il che era inevitabile.
I vampiri in realtà non amano i propri simili, benché abbiano un bisogno disperato della compagnia degli immortali.
Proprio per questo bisogno io diedi vita alla mia creatura, Louis de Pointe du Lac, che divenne il mio paziente, e spesso amorevole, compagno nel XIX secolo; inoltre, col suo involontario aiuto, diedi vita anche a Claudia, la splendida vampira condannata a rimanere bambina. E, in quelle notti solitarie da vagabondo della fine del XX secolo, Louis era l’unico immortale che incontravo abbastanza spesso. Il più umano di tutti noi, il meno simile a un dio.
Non mi sono mai allontanato per lungo tempo dal suo tugurio nella zona più desolata di New Orleans. Ma lo vedrete. Ci arriverò. Perché Louis fa parte di questa storia.
In sostanza, troverete ben poco riguardo agli altri. In realtà, quasi nulla.
Fatta eccezione per Claudia. Sognavo sempre più spesso di lei. Ma lasciatemi spiegare: era stata uccisa più di un secolo prima, eppure io percepivo costantemente la sua presenza, come se fosse sempre pronta a uscire fuori.
Era il 1794 quando, da un’orfana morente, creai questa squisita, piccola vampira, e passarono sessant’anni prima che lei insorgesse contro di me: «Ti seppellirò nella tua bara per sempre, padre».
E io ci dormii, in una bara. E sarebbe stato degno di diventare una pièce teatrale quell’orrendo tentativo di omicidio, che vide coinvolte vittime mortali avvelenate all’uopo per offuscarmi la mente, coltelli che fecero scempio della mia carne bianca nonché il definitivo abbandono del mio corpo, in apparenza senza vita, nelle acque stagnanti della palude oltre le luci fioche di New Orleans.