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Ma non parlai. Non implorai. Mentre rimanevo in silenzio nel corridoio, inspirai l’odore di sangue che proveniva da lui, l’odore che sale da tutti i mortali e che in ciascuno è diverso. Come mi tormentava rilevare quella nuova vitalità, quel fuoco più vivo e il battito più potente e più lento del cuore che io riuscivo a udire, quasi che il corpo stesso mi parlasse in un modo in cui non poteva parlare a lui.

In quel caffè, a New Orleans, avevo colto un pungente odore di vita da quel corpo. Però non era lo stesso odore. No, assolutamente.

Era facile per me bloccare quella cosa. Lo feci. Mi ritirai nel fragile silenzio solitario di un uomo qualunque. Evitai il suo sguardo. Non volevo più sentire imprecise parole di scusa.

«Ci vedremo presto», dissi. «So che avrai bisogno di me. Avrai bisogno del tuo unico testimone quando l’orrore e il mistero di tutto questo diventeranno eccessivi. Verrò. Ma dammi tempo. E ricorda. Chiama il mio uomo a Parigi. Non fare affidamento sul Talamasca. Non vorrai certo dare loro anche questa vita, no?»

Quando mi voltai per andare, udii il rumore attutito e lontano delle porte dell’ascensore. Il suo amico era arrivato: un piccoletto dai capelli bianchi, vestito come spesso era David, con un sobrio abito antiquato, completo di panciotto. Sembrava davvero preoccupato mentre si dirigeva verso di noi con un’andatura veloce ed elastica. Poi fissò i suoi occhi su di me e rallentò.

Mi affrettai ad allontanarmi, ignorando la fastidiosa consapevolezza derivante dal fatto che quell’uomo mi conosceva, sapeva che cos’ero e chi ero. Tanto meglio, pensai, così crederà a David quando lui gli racconterà quella strana storia.

Come sempre, la notte mi stava aspettando. E la mia sete non poteva più aspettare. Rimasi fermo per un momento, con la testa rovesciata all’indietro, gli occhi chiusi e la bocca aperta, avvertendo la sete, spinto dal desiderio di ruggire come una bestia affamata. Se non c’è nient’altro, allora datemi il sangue. Quando il mondo, con tutta la sua bellezza, sembra vuoto e crudele, e io stesso mi sento perduto, allora datemi la mia vecchia amica, la morte, e il sangue che accorre con lei. Il vampiro Lestat è qui e ha sete. E, soprattutto stanotte, non rinuncerà a spegnerla.

Ma mentre frugavo nelle squallide strade secondarie, alla ricerca di quelle vittime crudeli che tanto amavo, sapevo di avere perduto Miami, la mia bellissima città meridionale. Almeno per un po’.

Nella mia mente continuavo a vedere quella piccola ed elegante camera al Park Central, con le sue finestre aperte sul mare e il falso David che mi diceva di volere da me il Dono Tenebroso! E poi vedevo Gretchen. Avrei mai pensato a quei momenti senza ricordare Gretchen? Avrei mai cancellato il fatto che avevo narrato la storia mia e di Gretchen all’uomo che credevo essere David prima che arrivassimo in quella camera, mentre il cuore batteva forte e io pensavo: finalmente? Finalmente!

Afflitto, vuoto e adirato, non volevo più vedere i graziosi alberghi di South Beach.

II

FUORI DEL REGNO DELLA NATURA

Le bambole

Una bambola nella casa del fabbricante di bambole guarda la culla e strilla: «Questo è un insulto per noi». Ma la più vecchia delle bambole, che ha visto, tenuta in disparte per lo spettacolo, intere generazioni della sua specie, grida a tutto lo scaffale: «Benché nessuno possa dir male di questo posto, uomini e donne portano qui, a nostro danno, qualcosa di sporco e chiassoso». Vedendolo gemere e agitarsi, la moglie del fabbricante di bambole sa bene che il marito ha avvertito la propria sciagura, e accoccolata al bracciolo della poltrona gli sussurra all’orecchio, la testa china sulla spalla: «Mio caro, mio caro, oh, mio caro, è stato un incidente».
William Butler Yeats

29

Due notti dopo, tornai a New Orleans. Mi ero aggirato nelle Florida Keys e in pittoresche cittadine meridionali, e avevo camminato per ore sulle spiagge del sud, agitando le dita dei piedi nella sabbia bianca.

Alla fine ero tornato e il tempo freddo era stato spazzato via dall’inevitabile vento. L’aria era di nuovo quasi balsamica e il ciclo appariva alto e brillante sopra le nuvole in corsa. Era la mia New Orleans.

Andai immediatamente dalla mia cara vecchia affittuaria, e chiamai Mojo, che stava dormendo nel cortile posteriore perché trovava l’appartamentino troppo caldo. Non ringhiò quando feci il mio ingresso nel cortile. Tuttavia mi riconobbe dal suono della voce. Non appena pronunciai il suo nome fu di nuovo mio.

Venne subito da me, saltando per buttarmi sulle spalle le soffici zampe pesanti e per leccarmi la faccia con la sua grande lingua rosa. Gli strofinai il muso, lo baciai e affondai il volto nel suo dolce pelo grigio brillante. Lo vidi di nuovo come mi era apparso quella prima notte a Georgetown, in tutto il suo fiero vigore e nella sua grande gentilezza.

Era mai esistito un animale così spaventoso eppure così colmo di affetto placido e dolce? Sembrava una combinazione meravigliosa. M’inginocchiai sul vecchio lastricato a lottare con lui, a rovesciarlo sulla schiena e a immergere la mia testa nel grosso collare di pelliccia sul suo petto. Emise tutta quella serie di piccoli ringhi, uggiolii e suoni acuti che i cani fanno quando ti amano. E io ricambiavo il suo amore!

Per quanto riguardava la mia padrona di casa, la cara vecchia signora che osservava tutto ciò dalla porta della cucina, era in lacrime all’idea che se ne andasse. Trovammo subito un accordo. Lei lo avrebbe tenuto e io sarei andato a trovarlo attraverso il cancello del giardino ogni volta che avessi voluto. Una soluzione invero eccellente, poiché di certo non era giusto aspettarsi che lui dormisse in una cripta con me e io non avevo bisogno di un simile guardiano, sebbene talvolta l’idea mi sembrasse graziosa.

Baciai teneramente la vecchia signora, anche se in modo rapido, affinché non si accorgesse di essere nelle immediate vicinanze di un demone. Poi me ne andai con Mojo, a camminare nelle strade strette e graziose del Quartiere Francese, ridendo tra me per come i mortali fissavano il cane e gli facevano strada, davvero terrorizzati da lui, mentre indovinate un po’ chi era quello da temere sul serio?

La mia tappa successiva fu l’edificio in rue Royale in cui Claudia, Louis e io avevamo passato insieme quegli splendidi, luminosi cinquant’anni di esistenza terrena nella prima metà del secolo scorso, un luogo parzialmente in rovina, come ho già descritto.

Era stato detto a un giovane, un individuo brillante che si diceva riuscisse a trasformare case in rovina in dimore regali, d’incontrarsi con me alla casa. Lo condussi lungo le scale nell’appartamento in disuso.

«Voglio tutto com’era più di cento anni fa», gli dissi. «Ma mi raccomando: niente di americano, niente d’inglese, niente di vittoriano. Dev’essere interamente francese.» Poi lo accompagnai in una specie di allegra marcia stanza dopo stanza, mentre lui prendeva appunti nel suo taccuino, riuscendo a vedere poco nell’oscurità, e io gli dicevo quale carta da parati avrei voluto lì, quale sfumatura di smalto su quella porta laggiù, che genere di bergère avrebbe potuto procurarsi per quell’angolo, che tipo di tappeto indiano o persiano doveva acquistare per quel pavimento…