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Nella stanza si udì un vago suono ritmico. Un debole bussare.

«Oh, abbiamo compagnia? Abbiamo qualche piccolo amico invisibile? Sì, guarda, lo specchio traballa. Sta per cadere!» Ed ecco che lo specchio andò a urtare le piastrelle, esplodendo in frammenti di luce che sfuggivano dalla cornice.

David stava di nuovo cercando di alzarsi.

«Sai cosa sembrano, David? Puoi sentirmi? Sono come stendardi di seta che si dispiegano intorno a me. E sono così deboli…»

Rimasi a guardare mentre lui si rimetteva in ginocchio. Ancora una volta prese a strisciare lungo il pavimento. Improvvisamente si alzò, lanciandosi in avanti. Afferrò il libro accanto al computer e, voltandosi, me lo scagliò contro. Cadde ai miei piedi. Stava annaspando. Con lo sguardo annebbiato, riusciva a malapena a stare in piedi.

Poi si voltò e quasi cadde in avanti nella piccola veranda, incespicando sul parapetto in direzione della spiaggia.

Gli andai dietro, seguendolo mentre barcollava sul pendio di sabbia bianca. La sete crebbe: soltanto pochi secondi prima aveva assaggiato il sangue, e ne doveva avere ancora. Quando raggiunse l’acqua, David rimase lì, malfermo sulle gambe. Solo una volontà di ferro lo tratteneva dal crollare al suolo.

Lo presi per una spalla, teneramente, cingendolo col braccio destro.

«No, dannazione, va’ all’inferno. No…» sibilò. Sebbene le forze stessero scemando, mi aggredì, spingendo contro il mio volto entrambi i pugni, e lacerandosi le nocche nel colpire la pelle invulnerabile.

Lo rigirai, guardandolo mentre scalciava contro le mie gambe e continuava a colpirmi con quelle morbide mani impotenti. E di nuovo strofinai il naso contro il suo collo, leccandolo, annusandolo e poi affondando i denti per la terza volta. Mmm… questa è pura estasi. Quell’altro corpo, logorato dall’età, avrebbe mai consentito un tale banchetto? Sentii il palmo della sua mano contro il mio volto. Oh, era così forte. Sì, combatti, combatti contro di me come io ho combattuto contro Magnus. È così dolce che tu lo faccia. Lo adoro. Davvero.

E come fu, quella volta, il deliquio? Giungevano da lui le preghiere più pure, rivolte però non agli dei nei quali non credevamo, non a un Cristo crocifisso o a una vecchia Regina Vergine. Ma preghiere rivolte a me. «Lestat, amico mio. Non prenderti la mia vita. Non farlo. Lasciami andare.»

Mmm… Feci scivolare il braccio ancora più strettamente intorno al suo torace. Poi mi tirai indietro, facendo passare la lingua sulle ferite.

«Scegli male i tuoi amici, David», mormorai, leccandomi il sangue sulle labbra e guardando in basso verso il suo volto. Era quasi morto. Com’erano belli quei suoi denti bianchi, forti e uniformi, e la morbida carne del labbro. Sotto le palpebre si vedeva solo il bianco. E come combatteva il suo cuore, quel cuore mortale giovane e perfetto. Il cuore che, pompando, aveva fatto scorrere il sangue nel mio cervello. Il cuore che aveva sobbalzato e si era fermato quando avevo avuto paura, quando avevo visto la morte avvicinarsi.

Appoggiai l’orecchio sul suo petto e ascoltai. Sentii l’ambulanza che urlava attraverso Georgetown. «Non lasciarmi morire.» Lo vidi in quella camera d’albergo del sogno di tanto tempo prima con Louis e Claudia. Siamo tutti soltanto creature casuali nei sogni del Diavolo?

Il cuore stava rallentando. Il momento era quasi giunto. Ancora una piccola bevuta, amico mio.

Lo sollevai e lo trasportai per la spiaggia fino alla camera. Baciai le minuscole ferite, leccandole e succhiandole con le labbra, e poi facendo di nuovo penetrare i miei denti. Uno spasmo lo attraversò, un piccolo grido gli sfuggì dalle labbra. «Ti amo», sussurrò.

«Sì, e io amo te», risposi, con le parole soffocate dalla carne, mentre il sangue tornava a sgorgare bollente e irresistibile.

Il battito del cuore giungeva sempre più lento. Lui stava barcollando tra i ricordi, fino alla culla, al di là delle sillabe distinte e aspre del linguaggio, mugolando con se stesso come se seguisse la melodia di un vecchia canzone.

Il suo corpo caldo e pesante era premuto contro di me, con le braccia abbandonate, la testa nella mia mano sinistra e gli occhi chiusi. Il debole mugolio si spense, e il cuore accelerò improvvisamente con piccoli battiti attutiti.

Mi morsi la lingua finché non riuscii più a sopportare il dolore. Più e più volte mi forai coi miei stessi canini, muovendo la Lingua a destra e a sinistra, poi incollai la mia bocca alla sua, forzando le labbra ad aprirsi, e feci scorrere il sangue sulla sua lingua. Sembrò che il tempo si fermasse. Ecco che giunse l’inconfondibile sapore del mio stesso sangue che mi colava in bocca, mentre finiva nella sua. Poi, d’un tratto, i suoi denti scattarono chiudendosi sulla mia lingua. Lo fecero minacciosamente e in modo brusco, con tutta la forza di mortale delle sue mascelle, e raschiarono la carne soprannaturale e il sangue dal taglio che mi ero inferto, mordendomi con tanta forza da sembrare che avrebbero proprio reciso la lingua se avessero potuto.

Il violento spasmo lo attraversò. La sua schiena s’inarcò contro il mio braccio. E quando mi tirai indietro, con la bocca tutta dolorante, la lingua che mi faceva male, lui si sollevò, famelico, con gli occhi ancora incapaci di vedere. Mi lacerai il polso. Ecco che arriva, mio adorato. Ecco che arriva, non in piccole goccioline, ma dal fiume stesso del mio essere. E questa volta, quando la sua bocca si serrò su di me, fu un dolore che arrivò sino in fondo alle radici del mio essere, intrappolando il mio cuore nella sua rete ardente.

Per te, David. Bevi. Sii forte.

Non poteva uccidermi ora, per quanto durasse quell’atto. Lo sapevo, e i ricordi di quei tempi andati in cui lo avevo fatto con timore sembravano goffi e sciocchi, e ben presto svanirono, lasciandomi lì da solo con lui.

M’inginocchiai sul pavimento, sostenendolo, lasciando che il dolore si diffondesse lungo ogni vena e ogni arteria come sapevo che sarebbe accaduto. E il calore e il dolore crebbero in me a tal punto che fui costretto a distendermi, tenendolo tra le braccia, col mio polso incollato alla sua bocca e con la mia mano ancora sotto la sua testa. Mi prese un senso di stordimento. Il battito del mio stesso cuore rallentò pericolosamente. Succhiò ancora e ancora e, sullo sfondo della brillante oscurità dei miei occhi chiusi, vidi le migliaia e migliaia di minuscoli vasi svuotarsi, contrarsi e afflosciarsi come i sottili filamenti neri di una tela di ragno battuta dal vento.

Eravamo di nuovo nella camera d’albergo nella vecchia New Orleans, e Claudia sedeva in silenzio sulla sedia. Fuori, la città era punteggiata di lampade fioche. Com’era scuro e pesante il ciclo sopra di noi, così diverso dalle sfolgoranti aurore che avrebbero caratterizzato le città del futuro.

«Te l’avevo detto che l’avrei fatto di nuovo», dissi a Claudia.

«Perché ti disturbi a darmi spiegazioni?» chiese lei. «Sai perfettamente che non ti ho mai fatto domande in proposito. Sono morta da anni e anni.»

Aprii gli occhi.

Ero disteso sul freddo pavimento di piastrelle della stanza, e lui era sopra di me. Mi guardava, mentre la luce elettrica brillava sul suo volto.

I suoi occhi non erano più marroni. Apparivano colmi di una dolce, abbagliante luce dorata. Uno splendore innaturale aveva già invaso la sua pelle liscia e scura, rendendola un po’ più pallida e ancor più straordinariamente dorata, e i suoi capelli avevano già assunto la tipica lucentezza cupa e sgargiante. Tutta la luce si raccoglieva su di lui, veniva riflessa da lui e giocava intorno a lui come se lo trovasse irresistibile: su quell’uomo alto e angelico dall’aria vacua e confusa.

Lui non parlò. E io non potevo interpretare la sua espressione. Ma conoscevo le meraviglie che contemplava. Guardava la lampada, i frammenti di specchio, il ciclo fuori… E io sapevo quello che vedeva.

Mi fissò di nuovo. «Ti sei fatto male», mormorò. Sentivo il sangue nella sua voce! «È così? Ti sei fatto male?»