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Su una sedia a dondolo in legno d’acero dall’orribile rivestimento a scacchi, lei sedeva composta, piccola ma dignitosa, col romanzo aperto davanti a sé. Che gioia ritrovarsi ancora una volta con Francie Nolan! Le sue ginocchia magre erano appena nascoste dalla vestaglia di cotone a fiori che aveva preso dal ripostiglio, mentre i piccoli piedi deformi calzavano le graziose pantofole blu»! lunghi capelli grigi erano raccolti in una folta treccia.

Sullo schermo del piccolo televisore in bianco e nero posto davanti a lei, vecchie stelle del cinema parlavano senza emettere suono. Joan Fontaine pensava che Cary Grant stesse tentando di ucciderla e, a giudicare dall’espressione del viso di lui, sembrava proprio che fosse così. Come ci si poteva fidare di Cary Grant, mi chiedevo, di un uomo che sembrava scolpito nel legno?

Lei non aveva bisogno di sentire le loro parole. Stando a uno scrupoloso calcolo, aveva visto quel film almeno tredici volte. Il romanzo invece l’aveva letto soltanto due volte. Sarebbe stato dunque un vero piacere ripercorrere quei capitoli che ancora non conosceva a memoria.

Dall’ombroso giardino sottostante, percepii che quella donna si giudicava con indulgenza, senza drammatizzare troppo; si sentiva soprattutto assai lontana dall’evidente cattivo gusto che la circondava. I suoi pochi tesori potevano essere contenuti in qualsiasi armadietto. Il libro aperto e lo schermo acceso erano più importanti per lei di qualunque altra cosa in suo possesso:

era ben consapevole del loro valore spirituale. Persino il colore dei suoi abiti funzionali e senza pretese non aveva per lei la minima rilevanza.

Il mio assassino randagio era vicino alla paralisi; la sua mente era un tumulto di momenti così intimi da resistere a ogni interpretazione.

Sgusciai sul retro del piccolo edificio e trovai le scale che conducevano alla porta della cucina. La serratura cedette sotto la mia forza di volontà e la porta si aprì senza che io l’avessi toccata, come se l’avessi spinta.

In silenzio scivolai nella piccola stanza rivestita in linoleum. L’esalazione di gas che si alzava dalla piccola stufa bianca mi dava la nausea, come l’odore della minestra proveniente da un appiccicoso piatto di ceramica. Quella stanza tuttavia suscitò in me un subitaneo moto di commozione. Com’era graziosa l’ordinata esposizione di piatti di porcellana cinese bianca e blu. E guarda lì: i libri di cucina con le orecchie. Che pulizia rivelava il tavolo ricoperto di una solare cerata gialla. E com’era bella la flessuosa edera verde che cresceva in una boccia di acqua limpida, riflettendo sul soffitto basso un tremolante circolo di luce.

Eppure, quando mi ritrovai lì, tutto rigido, e mi accingevo a richiudere la porta, ciò che soprattutto mi colpì fu un’altra cosa:

mentre leggeva il romanzo di Betty Smith, dando di tanto in tanto un’occhiata allo schermo luminoso, quella donna non aveva paura della morte. Non era dotata di un’antenna interna che potesse captare la presenza del fantasma che se ne stava acquattato, in preda alla follia, nella strada vicina ne quella del mostro che le stava infestando la cucina.

L’assassino era così immerso nelle sue allucinazioni da non vedere neppure coloro che lo incrociavano. Non vedeva la macchina della polizia che pattugliava la zona, ne l’aria sospetta e deliberatamente minacciosa dei mortali in uniforme che conoscevano tutto di lui, persino il fatto che avrebbe colpito quella notte, ma ignoravano chi fosse.

Un sottile filo di bava gli scendeva sul mento non rasato. Niente era reale per lui, ne la sua vita durante il giorno, ne la paura di essere scoperto. L’unica cosa vera era il brivido elettrico che le allucinazioni trasmettevano al suo torace massiccio e ai suoi arti pesanti. La sua mano sinistra ebbe un sussulto: la parte sinistra della bocca si stava contraendo in una morsa.

Odiavo quell’individuo! Non volevo bere il suo sangue. Era un assassino privo di classe. Era il sangue della donna che io volevo.

Com’è assorta, in quella perfetta solitudine e in quell’assoluto silenzio, com’è minuta, com’è concentrata — neanche la sua mente fosse penetrante come un raggio di sole —, com’è soddisfatta, mentre legge i capitoli della storia che conosce così bene. Tornava con la memoria ai giorni in cui l’aveva letta per la prima volta, appoggiata al bancone affollato di un bar di Lexington Avenue, a New York, quand’era una giovane segretaria elegante, e indossava una gonna di lana rossa e una vaporosa camicetta bianca con bottoni di perle ai polsini. Lavorava in un grattacielo occupato da uffici di grande prestigio, con ascensori dalle porte di ottone lavorato e saloni dai rivestimenti in marmo color ocra.

Volevo premere le mie labbra sui suoi ricordi, sul suono dei suoi tacchi alti che ticchettavano sul marmo, sulle calze di pura seta che faceva scivolare sui polpacci levigati, sempre con estrema attenzione, per non tirare i fili con le lunghe unghie smaltate. Vidi per un istante i suoi capelli rossi e la tesa del cappello giallo, stravagante e teoricamente orribile, e invece delizioso.

Quello era il sangue che valeva la pena di bere. E io avevo fame come di rado mi era capitato in tutti quei decenni. Il digiuno quaresimale fuori stagione era durato più di quanto potessi sopportare. Mio Dio, come volevo ucciderla!

Nella strada sottostante, un debole borbottio risuonò dalle labbra dello stupido, goffo assassino, e si fece strada nel torrente in piena degli altri rumori che si riversavano nelle mie orecchie di vampiro.

Infine la bestia si staccò dal muro, barcollando e sbandando come se stesse per scivolare a terra, quindi si avviò nella nostra direzione, attraverso il piccolo cortile e poi lungo le scale.

Avrei forse lasciato che lui la spaventasse? Sembrava piuttosto inutile, dal momento che lo tenevo sotto tiro. Eppure gli permisi d’infilare un piccolo arnese di metallo nel foro rotondo del pomello della porta, dandogli il tempo di forzare la serratura. Divelta dal legno marcio, la catena si spezzò.

Fece un passo nella stanza, puntando gli occhi inespressivi sulla donna. Paralizzata dal terrore, lei si contrasse sulla sedia, mentre il libro le scivolava di mano.

Ah, ma fu allora che lui mi vide, nel vano della porta di cucina: un giovane ombroso, vestito di velluto grigio, con gli occhiali sollevati sulla fronte, che lo fissava nel suo stesso modo inespressivo. Si accorse degli occhi iridescenti, della pelle simile ad avorio levigato, dei capelli che ricordavano una muta esplosione di luce bianca? O tutto ciò non contava e io ero soltanto un ostacolo tra lui e il suo sinistro scopo?

In un secondo, si lanciò per le scale, mentre la vecchia, con un grido, si precipitava a chiudere la porta.

Lo inseguii. Senza neppure toccare terra, rimasi sospeso, per un istante, sotto i lampioni della strada. E lui, girando l’angolo, mi vide. Procedemmo discosti per mezzo isolato, poi mi avvicinai, un’apparizione confusa che i mortali non si diedero la briga di notare. Quindi mi materializzai proprio accanto a lui e sentii il suo rantolo allorché cominciò a correre.

Quel nostro gioco continuò per diversi isolati. Lui correva, si fermava, si girava e mi vedeva dietro di lui. Grondava di sudore e ben presto il sottile tessuto sintetico della sua camicia aderì come una seconda pelle al petto glabro.

Infine giunse al suo albergo d’infimo ordine e si precipitò sulle scale. Io lo aspettavo nella piccola stanza all’ultimo piano. Prima ancora che potesse gridare, lo tenevo già tra le braccia. Il tanfo dei suoi capelli sporchi raggiunse le mie narici, mescolato all’odore aspro delle fibre sintetiche della camicia. Ma non aveva importanza, in quel momento. Lui era forte e caldo tra le mie braccia come un succulento cappone. Il suo petto palpitava contro il mio, mentre l’odore del suo sangue inondava il mio cervello. Lo udii pulsare attraverso i ventricoli e le valvole e i vasi dolorosamente compressi. E, proprio sotto i suoi occhi, presi a leccarlo, affondando nella tenera carne rossa.